venerdì 27 gennaio 2012
Weisz, l'ebreo che fece grande il Bologna
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte
beviamo beviamo”.
Sono i versi scarni del più noto poeta della Shoà, che ha descritto l’atroce esperienza della persecuzione nel linguaggio lirico della poesia. È Celan, ebreo rumeno che scrive in lingua tedesca, la lingua dei carnefici, il quale, contro la stentorea affermazione di Adorno, “…scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie…”, sperimenta, con risultati altissimi, la potenzialità del linguaggio lirico di mettere in essere, di fare sentire, la Shoà.
Aharon Appelfeld, scrittore israeliano di origine rumena, sopravvissuto ai campi, trae spunto proprio dagli stessi versi della poesia di Celan, rispondendo ad una domanda rivoltagli da Philip Roth. Dice, parlando dei sopravvissuti, dei superstiti, che “il sopravvissuto … ha ingoiato l’Olocausto tutto intero, e procede nella vita con l’Olocausto in tutte le sue membra. Beve il “latte nero” del poeta Celan, mattino, pomeriggio e sera. Non ha alcun vantaggio su nessun altro, ma non ha ancora perduto il suo volto umano”.
Più ironico e solare, Primo Levi, scrittore non “professionista”, autore del capolavoro Se questo è un uomo, nel suo libro Se non ora quando?, dedicato agli ebrei dell’Europa orientale, propende per un percorso narrativo più lieve. In questo libro, il cui titolo è tratto da un antico insegnamento rabbinico, Levi confessa che voleva “raccontare una storia piena di speranza, a tratti allegra, benché proiettata su uno scenario sanguinoso. Volevo combattere un luogo comune ancora prevalente in Italia: un ebreo è una persona mite, uno studioso, inadatto alla guerra, umiliato che ha sopportato secoli di persecuzione senza mai reagire. Mi sembrava doveroso rendere omaggio a quegli ebrei che, in condizioni disperate, trovarono il coraggio e la capacità di resistere”.
I diversi registri stilistici e narrativi con cui ebrei e non ebrei hanno espresso l’esperienza traumatica del fascismo, del nazismo, delle persecuzioni e della guerra vi vengono presentati in un percorso di letture.
Abbiamo deciso di ricordare attraverso i brani letterari, poesie e lettere, stralci di testi narrativi, riflessioni teoriche e filosofiche di coloro che hanno vissuto questo momento storico. Abbiamo scelto le parole di autori noti e meno noti, poeti, scrittori, filosofi, storici, ma anche comuni cittadini.
La memoria, restituita dai brani che presentiamo, non passa solo attraverso i versi lirici che fissano e restituiscono l’esperienza del trauma e della perdita, ma è fatta anche delle voci speranzose di coloro che sono stati perseguitati, per motivi politici, razziali e religiosi, dai regimi nazi-fascisti.
Voci che invitano ad una riflessione sul dovere dell’azione e del ricordo, ma incitano anche alla speranza irrinunciabile di un mondo migliore.
venerdì 13 gennaio 2012
La donna che ha mummificato il figlio
Kimberley Hainey, 37 anni, è stata riconosciuta colpevole per l’assassinio del proprio figlio Declan, di 14mesi, in un appartamento di Paisley, nel Renfrewshire. Il corpo in decomposizione è stato trovato nella sua culla 8 mesi dopo che è stato visto per l’ultima volta dai vicini. Ad aggravare la posizione della donna la mancata denuncia alla Polizia della morte del figlio.
NON E’ STATA UNA BUONA MADRE - La donna è stata condannata dall’alta corte di Glasgow al carcere a vita, con la possibilità della semilibertà solo dopo 15 anni di reclusione. L’ultima volta in cui Declan è stato visto vivo è stato nell’agosto 2009, e secondo gli inquirenti il bambino, al momento del ritrovamento, era morto da otto mesi. “Declan ha compiuto un anno nell’aprile 2009, e credeva di avere tutta la vita davanti a sé. La gente pensava che lei fosse una madre amorevole, invece dopo pochi giorni è morto”, questa l’arringa del giudice, Lord Woolman.
MANCATO CONTROLLO – Il giudice ha proseguito: “Lei doveva prendersi cura di suoi figlio. Non doveva permettere agli altri di avvicinarsi. Invece lei l’ha isolato dalla famiglia, dai vicini, dagli amici e dal sistema del welfare. Nessuno era convinto che Declan corresse dei rischi. La giuria l’ha condannata, cara signora, perché in tutto questo tempo non ha trattato Declan nel modo adeguato. Non l’ha nutrito. Non l’ha fatto bere. L’ha lasciato da solo per troppo tempo e non si è mai preoccupata della sua salute”.
NON E’ COLPA SUA – E non paga di ciò -questa la conclusione del giudice- ha fatto di tutto per nascondere quanto accaduto. Il suo è stato un crimine troppo grosso. Ha fatto di tutto per nascondere la morte di suo figlio”. La corte ha però riconosciuto che la Hainey aveva problemi con l’alcol e le droghe. Dal canto suo la Hainey ha detto che la perdita del figlio è stata una tragedia per lei insostenibile. “Amavo mio figlio più di qualsiasi cosa al mondo”. L’avvocato difensore della donna, Edward Targowski, ha invece detto che la sua assistita non è responsabile per la morte del bambino. “La sua unica colpa è stata quella di non rendere pubblica la sua morte per evitare che fosse accusata di questo orrendo delitto”.
TUGURIO - Nonostante tutto però la donna diceva, a tutti coloro che chiedevano dove fosse Declan, che era da alcuni familari o che stava da una baby sitter, così da far credere ai vicini che il piccolo fosse ancora in vita. La polizia dal canto suo ha reso pubbliche le foto della casa della donna. Da notare come l’appartamento fosse in realtà un deposito d’immondizia. In una foto si vede un lettino da viaggio riempito da bottiglie di plastica vuote. In altre si vedono delle bottiglie di latte rancido. Un’altra foto mostra i sanitari in condizioni pietose. Una situazione senza speranza, un bimbo morto e una donna in galera per almeno 15 anni. Una storia in cui non vince nessuno.
fonte: giornalettismo/daily mail