mercoledì 29 febbraio 2012

11 SETTEMBRE "CORE BUSINESS"

La Casa Bianca esprime sconcerto e rabbia per le prime ammissioni ufficiali del Pentagono sulla cattiva gestione dei resti umani non identificati
I corpi di alcune vittime dell’11 settembre, fra soldati e civili, quello del volo United Flight 93 principalmente che non fu fra quelli schiantatisi a New York, vennero consegnate alla camera mortuaria più importante dell’esercito americano a Dover, nel Delaware, per essere cremati e la struttura, una volta assolto il compito consegnò il materiale di risulta ad una società privata di smaltimento rifiuti che smaltì tutto, come da “core business”, insieme agli altri rifiuti. E’ grande l’imbarazzo e la rabbia della Casa Bianca mentre il dipartimento della Difesa, il Pentagono, ammette e conferma quelle che finora erano state rivelazioni giornalistiche.
“Si tratta della prima volta che il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ammette la cattiva gestione dei resti di vittime e soldati”, scrivono le agenzie in Italia, “dopo che a novembre il Washington Post aveva rivelato che la più importante camera mortuaria dell’esercito statunitense a Dover, in Delaware, aveva gettato i resti di alcune delle vittime delle guerre in Afghanistan ed Iraq in una discarica della Virginia. Nel documento pubblicato ieri dal Pentagono si legge che i resti gettati appartenevano sì alle vittime del 11/9, ma non potevano essere “né analizzati né identificati”. “Il presidente Obama è stato informato dell’inchiesta (…) e sostiene con forza gli sforzi intrapresi dal Pentagono per introdurre dei cambiamenti profondi così da evitare in futuro questo genere di incidenti”, ha dichairato il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney. “Secondo il rapporto”, continuano le notizie arrivate in Italia,”dopo averli inceneriti, la camera mortuaria consegnava i resti umani non identificati ad un’azienda privata perchè fossero smaltiti assieme ad altri rifiuti organici. Stando al rapporto di Abizaid, nel delegare lo smaltimento dei resti con gli altri rifiuti, gli ufficiali a capo della camera mortuaria della base di Dover “davano per scontato che dopo l’incenerimento, non rimanesse nulla”.
E invece non era così: “Il metodo di smaltimento delle parti del corpo”, scrive il New York Times” delle vittime dell’11 settembre è stato limitato a ciò che secondo il rapporto erano “varie porzioni e resti”, che non potevano essere identificate nell’attacco al Pentagono e nel sito dello schianto a Shanksville, Pennsylvania. Il rapporto afferma che i resti sono stati cremati e piazzati in contenitori forniti ad una società di smaltimento di rifiuti biomedici, che li ha inceneriti e messi in discarica”, il che aggiunge informazioni peraltro a quel che dicono le agenzie, visto che per il Times è stata la società a provvedere alla ulteriore cremazione. Ai familiari delle vittime è stata raccontata una ulteriore versione: “Non ci possiamo credere, i resti del volo 93 erano sotto la cura e il controllo del coroner della contea del Somerset, Wallace Miller. Ci ha detto che non furono inviati resti a Dover”, ha detto Lisa Linden, portavoce famiglie del volo United Flight 93.

fonte Giornalettismo

IL MITO ALL BLACKS ABBATTUTO DALLA MALATTIA



E’ stato una delle stelle degli All Blacks. Un gigante in campo, e un mito per gli appassionati di sport. Forte, appassionato, tenace, come ad ogni rugbista si chiede.





E’ stato una delle stelle degli All Blacks. Un gigante in campo, e un mito per gli appassionati di sport. Forte, appassionato, tenace, come ad ogni rugbista si chiede.
Il campione neozelandese Jonah Tali Lomu, il colosso che grazie alla palla ovale era riuscito a fuggire dai sobborghi malfamati di Auckland, sta per perdere l’ultima battaglia della sua vita: quella contro la malattia. Dieci anni fa nessuno poteva neppure immaginare di fermare Jonah Lomu, il gigante invincibile. Implacabile ed implaccabile. Centoventi chili di muscoli per 1.96 d’altezza, i cento metri corsi in 10 secondi e 9 decimi. Il campione che da solo scardinava le mischie di tutto il mondo, un treno lanciato a piena velocità che il giorno della finale mondiale in Sudafrica spaventò anche Mandela. Adesso Jonah ha 36 anni, è immobile sul letto di un ospedale, ha perso trenta chili in un paio di settimane, le enormi braccia tatuate raggrinziscono per la malattia, lo sguardo è triste. Repubblica riporta il suo malessere: «Prima o poi tutti dobbiamo morire. Non avrei mai pensato di finire così», dice. E la luce negli occhi è sempre la stessa. Ci vuole subito un nuovo trapianto di rene, ma questa volta sarà ancora più dura. Jonah è tornato nell’ospedale di Auckland dopo che l’altro giorno le sue condizioni sono improvvisamente peggiorate. La Nuova Zelanda piange per il suo eroe, consapevole che la partita si è fatta disperata. Lui non si arrende, prova a prendere a spallate il male che porta con sé, come faceva con i suoi avversari. E tutto il mondo ovale è con lui, pronto a sostenerlo. Come una grande squadra di rugby. «Venerdì era andato a correre anche se non stava bene», spiega la moglie Nadene, scuotendo la testa. Jonah accenna un sorriso: «Il mio corpo ha come preso la forma di una pera. Erano dieci giorni che non riuscivo a trattenere il mangiare. Pensavo fosse un raffreddore. Invece era il mio rene che se n’era andato. Il corpo s’era così intossicato da bloccarsi. E sono caduto a terra».
A vincere contro infortuni e malattie Lomu c’era riuscito, più volte. Non ora, però: Lui, che a terra non ci era mai finito. Che a 19 anni era diventato il più giovane All Black della storia. E pochi mesi dopo era la stella del Mondiale sudafricano, celebrato da “Invictus” di Clint Eastwood. Così spaventosamente possente che scommettevano su chi sarebbe riuscito a placcarlo. Nelson Mandela volle conoscerlo e scambiò con lui qualche parola prima della finale. Di sicuro lo guardò negli occhi. Nella primavera, era il 1996, il ragazzo cominciò ad avvertire i primi sintomi della nefrite, che lo tenne fuori un paio di stagioni. Sembrava tutto finito – perché nessuno può fermare Lomu, dicevano -, alla successiva rassegna iridata tornò ad abbattere gli avversari come birilli. Con la maglia dei "Tutti Neri" ha giocato 63 partite realizzando 37 mete. Fino al 2003, secondo stop e inizio del calvario. Ci vuole un trapianto, il rene è quello di un amico dj, Grant Kereama. Jonah si riprende lentamente, non molla. Torna in palestra. Sogna di partecipare ai Mondiali del 2007. Segna una meta all’Inghilterra, ma si fa male ad una spalla. Ricomincia da capo, e va a giocare a Cardiff, in Galles. Però la malattia ormai lo ha placcato. E piano piano lo tira giù. Accetta un contratto con un club semi-professionistico di Marsiglia, due anni fa è con gli ottantamila del Meazza come testimonial. Dal terzo matrimonio con Nadene nascono due bimbi. Va in dialisi. Continua a lottare, diventa bodybuilder. Tra qualche settimana doveva partecipare ad un incontro benefico di pugilato. «Perché nessuno mette al tappeto Jonah Lomu», diceva. E c’era una luce triste nei suoi occhi.

fonte Giornalettismo/Repubblica

lunedì 20 febbraio 2012

L'AEREO DIVENTERA' TRASPARENTE

L'Airbus presenta gli apparecchi che voleranno in futuro: ali lunghissime e sottili, fusoliera in biopolimeri per vedere il panorama a 360 gradi, zona relax, spa, area business e perfino giardini zen. Come voleremo nel prossimo futuro? L'aviazione punterà sulla formula 'total green': ali lunghissime e sottilissime per scivolare nell'aria con meno attrito, riducendo il consumo di carburante. Una coda a forma di U che farà da scudo all'inquinamento acustico e fusoliere sagomate fatte con bioceramiche per offrire più spazio interno e migliore aerodinamicità esterna. E' questa l'idea del Concept Plane, un velivolo messo in cantiere dall'azienda londinese Airbus Industrie e che solcherà i cieli entro il 2050. «Per realizzarlo ci siamo ispirati alla struttura ossea degli uccelli: forte, resistente e leggera», spiega Charles Champion, vicepresidente dell'Airbus. «Il nuovo airbus avrà una cabina 'intelligente' formata da una struttura bionica che diventerà infatti completamente trasparente grazie agli impulsi elettronici che elimineranno la visibilità della fusoliera». I biopolimeri interattivi permetteranno ai viaggiatori di guardare quindi il panorama anche dal pavimento dell'aeroplano, con la possibilità di oscurare la propria postazione in ogni momento, regolando luce, umidità e temperatura. «Il viaggio in aereo è destinato ad evolversi, trasformandosi in un'esperienza nuova e completamente diversa da come la conosciamo ora», continua Champion. Grazie ad un meccanismo a memoria interna, chiamato Smart Energy, le poltrone cambieranno la propria forma rispetto al corpo dei passeggeri, il cui calore permetterà anche di alimentare i sistemi di bordo. In questa prospettiva 'Economy' e 'business class' non esisteranno più: verranno sostituite nella parte anteriore dalle zone relax e nella parte posteriore da quelle dedicate al lavoro. L'aereo potrà contenere fino a 300 passeggeri e avrà tutto quanto è necessario per rendere il viaggio piacevole, dalla Spa integrata all'area interattiva e 'smart tech'. «Nel social bar i passeggeri potranno fare shopping, cambiandosi d'abito nei camerini virtuali o giocare a golf in un campo digitale. Il cuore del sistema sarà un display olografico alimentato dal calore corporeo che permetterà di trasformare il proprio spazio in un ufficio, in una confortevole camera da letto o persino in un giardino zen». Altro che film a bordo: il viaggiatore potrà studiare da vicino la geologia dei luoghi che sorvola attraverso schermi touchscreen, vivere scene storiche virtuali, ammirare città lontane o foreste tropicali e persino ritrovarsi proiettato dentro un safari. Concept Plane sarà anche in grado di autopulirsi e ripararsi da solo grazie a microspruzzi di nanocollante con capacità cicatrizzanti, proprio come la pelle umana. «Il nuovo velivolo è stato progettato per dimostrare che anche il viaggio può diventare interessante così come la destinazione finale», dice il vice presidente Champion. L'unico enigma resta ancora il costo del biglietto.

FONTE L'Espresso

UN MARE DI BOMBE

Un rapporto di Legambiente svela gli arsenali nascosti nelle acque del Tirreno e dell’Adriatico
Il mare italiano, il Tirreno e l’Adriatico per la precisione, nascondono veri e propri arsenali. Sono decine di migliaia infati le bombe che, a settant’anni dalla Seconda Guerra Mondiale, giacciono lungo le nostre coste minacciando l’ambiente e la salute dei cittadini. Ci sarebbero anche armi chimiche. A denunciarlo è un rapporto di Legambiente sulle armi chimiche nascoste nei fondali. Ne parla Repubblica in un articolo a firma di Giovanni Valentini:

Si dice “bomba” in senso generalmente metaforico: per dire una notizia o un fatto clamoroso, destinato a scoppiare suscitando reazioni e polemiche. Ma qui diciamo “bombe”, al plurale, in senso stretto: cioè ordigni esplosivi. Per maggior precisione, bombe chimiche. Sono quelle che, a più di mezzo secolo dalla fine della seconda Guerra mondiale, giacciono ancora in fondo ai nostri mari e ai nostri laghi o sul nostro territorio, minacciando l’ambiente e la salute dei cittadini. Dal Golfo di Napoli al litorale pugliese nel basso Adriatico, dai fondali pesaresi al lago di Vico (Viterbo) fino all’area industriale di Colleferro, in provincia di Frosinone, l’inventario delle armi chimiche compilato da Legambiente disegna la mappa di un pericolo occulto che incombe sulla nostra sicurezza. Un’eredità invisibile dell’ultima guerra o piuttosto un’ipoteca nascosta che grava tuttora sulla sicurezza della popolazione. Oltre ai siti inquinati di cui si conosceva già l’esistenza, l’indagine dell’associazione ambientalista ne ha individuati altri sulla base di diversi documenti militari. Ma a tutt’oggi non risulta che siano state svolte indagini accurate per localizzarli esattamente e quantificarne il materiale pericoloso. Né tantomeno lavori di bonifica. Si sa però che il “campionario” di queste sostanze chimiche comprende liquidi irritanti come l’iprite o la lewisite; l’arsenico, tossico e cancerogeno; e ancora il fosgene, un gas asfissiante.

Sarebbe di 30 mila ordigni (nel basso Adriatico) il numero di bombe presenti lungo la costa pugliese. Agli ordigni della Seconda Guerra Mondiale si sono aggiunti quelli Nato sganciati nel 1999 durante il conflitto in Kosovo. Fa sapere ancora Repubblica:
Sono oltre 30 mila — secondo il dossier di Legambiente — gli ordigni inabissati nel sud dell’Adriatico, lungo la costa pugliese, di cui 10 mila solo nel porto di Molfetta e di fronte a Torre Gavetone, a nord di Bari. Agli arsenali chimici dispersi sui fondali durante la seconda guerra mondiale, si sono aggiunte le bombe inesplose sganciate dagli aerei della Nato durante il conflitto del Kosovo nel 1999. Fra il 1946 e il 2000, molti pescatori della zona hanno fatto ricorso a cure ospedaliere, dopo essere entrati in contatto con aggressivi chimici provenienti da residuati bellici. Le analisi dei sedimenti marini hanno rilevato gravi conseguenze anche nei pesci, causate da sostanze come l’iprite e concentrazioni di arsenico superiori ai valori di soglia. Mentre la bonifica procede a rilento, la Regione Puglia ha stanziato intanto 2 miliardi di euro per favorire il ripopolamento della fauna ittica.
Dopo l’armistizio del ’43 nelle acque di Pesaro furono svuotate 84 tonnellate di testate all’arsenico, 4,300 bombe!
Nel settembre del ‘43, subito dopo l’armistizio, il quartier generale tedesco ordinò di conquistare tutti i depositi di gas sul territorio italiano, tra cui quello di Urbino, per evitare che cadessero in mani nemiche. Il materiale venne trasportato su camion fino a Pesaro e Fano, per essere caricato su un treno. Ma, in seguito all’avanzata angloamericana, i tre vagoni con 84 tonnellate di testate all’arsenico rientrarono a Pesaro, vennero svuotati da squadre speciali e buttati in acqua. Così 4.300 grandi bombe C500T furono caricate su barconi e nell’agosto del ‘44 ben 1.316 tonnellate di iprite finirono in mare dove ancora oggi continuano a essere potenzialmente molto pericolose.

Gli arsenali chimici pericolosi sono presenti anche nel mare campano:
Alcuni documenti militari americani, denominati “rapporti Brankowitz”, parlano del Golfo di Napoli e del mare intorno all’isola di Ischia come siti per lo smaltimento di arsenali chimici. Durante la presidenza Clinton, per un dovere di trasparenza, si decise di rendere pubblici gli atti. Ma, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, George W. Bush impose di nuovo il segreto. Una “Bozza” di 139 pagine, redatta il 27 aprile 1987 da William R. Brankowitz, contiene un «sommario storico sul movimento delle armi chimiche». A pagina 5 si legge che nell’aprile del ‘46 una quantità non specificata di bombe al fosgene è partita da “Auera” (probabilmente si tratta di Aversa, base militare americana) con destinazione il mare aperto: presumibilmente, venne effondata al largo della costa campana.
L’allarme sollevato dagli ambientalisti interessa anche l’area a Nord e a sud di Roma:
La “Città della Chimica”, una gigantesca base di oltre 20 ettari, fu voluta da Mussolini e realizzata sulle rive del lago di Vico (Viterbo). Conclusa nel 2000 la bonifica del sito, le autorità militari dichiararono che non esistevano ulteriori rischi di contaminazione. Ma nel novembre 2009 l’Arpa (Agenzia regionale protezione ambientale) del Lazio rilevò in un’alga tossica la presenza di diverse sostanze chimiche inquinanti. Finalmente, nel marzo 2010, le autorità militari hanno riconosciuto la necessità di ulteriori interventi di bonifica all’interno del centro chimico. A Colleferro, provincia di Frosinone, dopo la prima guerra mondiale il calo della produzione di esplosivi impose la ristrutturazione della BPD, l’azienda fondata dall’ingegner Leopoldo Parodi Delfino e dal senatore Giovanni Bombrini. Negli anni ‘70 e ‘80, gli scarti della produzione furono interrati all’interno del sito industriale, con “ripercussioni devastanti” sull’intera Valle del Sacco. Ma, secondo Legambiente, la produzione bellico-chimica è proseguita fino ai giorni nostri, prima in direzione dell’Iraq e poi della Libia.

Questa estate non cambiare, stessa spiaggia stesso mare !!!

FONTE: Giornalettismo

mercoledì 8 febbraio 2012

Un mistero lungo 20 milioni di anni

Un team russo rompe l'ultima barriera di ghiaccio e raggiunge un bacino di acqua temperata sepolto da milioni di anni. Un mondo isolato e autonomo rispetto alla Terra, la cui scoperta pone serie questioni ambientali. Con tanti interrogativi e anomalie, al momento senza risposta



Un mistero lungo venti milioni di anni, sepolto sotto i ghiacci del Polo Sud. E' quello racchiuso nel lago Vostok, subglaciale e grande come l'Ontario, lungo quasi 250 chilometri e largo 50, profondo 1000 metri, il più grande delle centinaia di bacini sotto il Polo sud. Forse gli strati che ricoprono il lago sono più recenti, nell'ordine delle decine di migliaia di anni. Ma tradotti in misure, equivalgono comunque a tre chilometri e oltre di spessore glaciale, che le trivelle russe impegnate nella spedizione hanno finito di perforare oggi, dopo trent'anni di lavori. La zona di Vostok è ammantata di mistero oltre che di ghiaccio, da sempre. Non ultima la sparizione del team di scienziati impegnati nei lavori in questi giorni, di cui hanno dato notizia network importanti come la Fox, poi riapparsi improvvisamente dopo una settimana di comunicazioni interrotte. E la vera avventura comincia adesso, perché fare luce sui misteri del lago, l'ambiente che lo circonda e le sue anomalie potrebbero rappresentare per la scienza un episodio non distante per importanza dalla conquista della Luna negli anni 60. Misteri e anomalie. L'enorme bacino subglaciale, scoperto negli anni 70, nasconde un tesoro tutto da stimare per quantità e qualità. Di sicuro c'è che l'acqua che contiene è purissima, incontaminata dall'ambiente terrestre, e così è rimasta per venti milioni di anni. L'ecosistema è quindi quello di quell'epoca, con tutto ciò che può comportare per forme di vita vegetali, animali, microbiali. Ma c'è molto di più. Il lago è sovrastato da una cava di ghiaccio, che contiene ossigeno e esercita pressione. A questo si aggiunge la temperatura dell'acqua, che verso la superficie è più fredda, ma che in alcune zone arriva intorno ai 30 gradi. Un posto piacevole per nuotare, se non fosse tremila metri sotto l'Antartide. Il fenomeno viene spiegato con un'ipotesi suggestiva: il bacino che ospita il lago sarebbe in una zona in cui la crosta terrestre è più sottile, da qui l'acqua temperata. E a questo punto si aprono gli scenari più incredibili. Quali forme di vita contiene il lago, che tipo di ambiente è? E comunque la si metta, si tratta di forme di vita da noi oggi considerabili completamente aliene, al mondo di oggi e al nostro ambiente. Tanto che la scienza considera Vostok come un campo di allenamento per comprendere Europa, satellite di Giove dalla composizione ambientale molto simile a questo tesoro chiuso nello scrigno dell'Antartide.I pericoli del mondo perduto. Il bacino del lago Vostok potrebbe essere un vero e proprio endopianeta, un mondo sconosciuto e autonomo all'interno del pianeta Terra, rimasto a venti milioni di anni fa. Secondo ipotesi non prive di fascino, il ciclo dell'acqua potrebbe essere completo, la conca della caverna ospitare fenomeni meteo, piogge e temporali e spostamenti d'aria. E forse forme di vita complesse. Sicuramente, ci sono i batteri. Un aspetto che crea più di un problema, perché il nostro mondo e quello dimenticato del lago Vostok potrebbero essere incompatibili. Un agente proveniente dalla Terra potrebbe contaminare e sterminare la biologia del lago in pochi minuti. Così come un agente proveniente dal lago, sconosciuto per il nostro ambiente e potenzialmente pericoloso potrebbe provocare problemi imprevedibili per tutto il pianeta. Per questo nell'opera di scavo, il team russo ha prestato attenzione totale al pericolo di contaminazione biunivoca. L'acqua da analizzare proveniente dal lago sarà prelevata creando un foro attraverso cui la pressione spingerà il liquido in alto. Si attenderà quindi il ricongelamento e poi verranno presi i campioni. Naturalmente il momento del taglio del ghiaccio per praticare il foro è quello più delicato, quello in cui il nostro mondo e i nostri batteri entrano in contatto con un universo misterioso intrappolato da milioni di anni. Attività magnetica inspiegabile. Ma i misteri di Vostok non sono finiti. Ce n'è un altro, ugualmente importante ma dai contorni ancora meno definibili. Nella zona sud-occidentale del lago, i team di ricerca hanno individuato e verificato per anni la presenza di una fortissima anomalia magnetica, ritenuta di origine inspiegabile, che si estende 105 km per 75. Alcuni ricercatori pensano che anche questo fenomeno sia da attribuirsi all'assottigliamento della crosta terrestre in quel punto. Ma alcuni rilievi effettuati da rilevatori sismici hanno individuato la presenza di un elemento metallico di forma circolare o forse cilindrica che appare dal diametro molto esteso, alla base del lago. L'ipotesi è che possa essere questa non specificata struttura a generare l'alterazione di 1000 nanotesla nel campo magnetico di una zona così estesa. Un elemento che ha aperto scenari da X-Files, che vedono già i sostenitori della presenza di un gigantesco Ufo seppellito di ghiacci, contro chi parla di un elemento meteorico. Di certo c'è che la forma dell'oggetto misterioso appare particolarmente regolare. Voci non confermate riportano che l'agenzia nazionale per la sicurezza degli Usa (NSA) abbia perimetrato la zona, secretato le comunicazioni sull'area e impedisca l'accesso per chiunque, per "evitare contaminazioni". Cosa nasconde il lago e in che modi e tempi la scoperta inciderà sul pianeta Terra è tutto da vedere. Vostok è stato appena raggiunto, e i misteri che contiene prima o poi arriveranno in superficie.

FONTE Repubblica.it

venerdì 3 febbraio 2012

LA GEMELLA DIMENTICATA

Una Gioconda ringiovanita, che dimostra 20 o 25 anni, ma con lo stesso enigmatico sorriso e lo sguardo intrigante della Monna Lisa di Leonardo da Vinci, stagliata su un fondo che ricorda quello della campagna toscana. È una replica del ritratto più celebre della storia dell’arte, quello che immortala la giovane Lisa Gherardini, sposa di un ricco commerciante fiorentino, Francesco del Giocondo. Ma non è una copia qualunque, come le tante esistenti, che risalgono al XV o al XVI secolo. È la gemella della Gioconda, creata da uno dei discepoli favoriti del genio toscano, forse Andrea Salai o anche Francesco Melzi, in contemporanea con l’autentica, plausibilmente nella stessa bottega, gomito a gomito col maestro fiorentino che lavorava all’originale, conservato al museo del Louvre. A convalidare la tesi sono le maggiori autorità del campo, gli esperti in conservazione del tempio parigino dell’arte e della pinacoteca madrilena. L’emozione è grande a trovarsela davanti al secondo piano interrato del Museo del Prado, circondata da restauratori in camice bianco ed esperti come il responsabile della conservazione della pittura italiana e francese, Miguel Palomin, che gli ha dedicato abnegazione assoluta. L’opera è stata anche esposta al pubblico lungo gli ultimi 80 anni, ma la scoperta degli ultimi mesi, spiega il direttore del Prado, Miguel de Zougaza, è sensazionale, «capace di trasformare la nostra conoscenza del mondo in cui Leonardo realizzò il suo lavoro». Il subbuglio è notevole fra la selva di giornalisti convocati in fretta e furia per la presentazione della giovane dama in società, anticipata dopo la pubblicazione della primizia fatta dalla rivista The Art Newspaper. A parte le dimensioni simili all’originale - 76x57 centimetri rispetto ai 77x53 del capolavoro leonardesco - per decenni il ritratto conservato al Prado, ceduto nel XVIII secolo dalle Collezioni Real dell’Alcazar, sembrava solo una replica senza importanza, attribuita a pittori fiamminghi, per il supporto sul quale era stato realizzato: una tavola di rovere, materiale che non era impiegato dagli artisti fiorentini del Rinascimento. Ma anche per quel fondo nero che non aveva nulla a che vedere col sereno paesaggio ritratto dal genio della pittura italiana. Poi due anni fa l’inizio del restauro, motivato dalla richiesta dell’opera in prestito fatta dal Louvre, per l’esposizione degli ultimi capolavori di Leonardo, fra cui “Sant’Anna”, in programma dal 29 marzo al 25 giugno. Da esami riflessologici e raggi ultravioletti sono emerse evidenze insperate, presentate a una conferenza tecnica alla London’s National Gallery, in occasione della mostra “Leonardo da Vinci: pittore alla corte di Milano”. «Il supporto è risultato essere di noce, proprio legno impiegato dagli artisti italiani dell’epoca. E lo sfondo nero è una sovrapposizione successiva» osserva Palomin «oggi crediamo sia stato aggiunto al quadro nel XVIII secolo». Il paziente lavoro dei restauratori ha consentito di liberare la tavola delle varie cappe di pigmenti oscuri che per oltre 5 secoli hanno circondato il volto della Monna Lisa del Prado e di fare emergere luce, colori autentici e vividi, assieme al tratto integro iniziale, con gli stessi paesaggi rappresentati da Leonardo nella sua opera . «Il paradosso è che l’opera mostra uno stato di conservazione straordinario, capace di fare apprezzare particolari della Monna Lisa originale, il cui volto resta ombrato dalla vernice invecchiata nel tempo, che le conferisce un aspetto da donna di mezza età, rispetto alla giovane Gioconda emersa dall’oscurità. Anche se non c’è paragone possibile fra la qualità artistica dell’opera di Leonardo e quella della replica» ammette l’esperto in pittura italiana. La modella, in ogni caso, sembra essere la stessa. È possibile che l’assistente abbia ritratto Monna Lisa quando la dama posava per il maestro o anche, come suggeriscono gli studi, mentre Leonardo terminava l’opera con gli ultimi ritocchi. La specialista tecnica del Prado, Ana Gonzalez Mozo, descrive la copia come «un lavoro di grande qualità» nella relazione presentata alla conferenza di Londra, in cui ha provato che venne realizzata nello studio di Leonardo, anche se il Louvre la colloca fra il 1503 e il 1506. Bruno Mottin, responsabile di conservazione al Centre de Recherche et de Restauracion des Musées de France, è convinto che l’autore della tavola del Prado possa essere uno dei pupilli del maestro: Andrea Salai, che lavorò nella sua bottega nel 1490 e forse ne fu amante, o Francesco Melzi, che dipinse agli ordini di Leonardo intorno al 1506. «La copia del Prado» conclude Palomin «è importante perché ci dice molto sulle pratiche artistiche nello studio di Leonardo, come la prosuzione di una seconda versione, dipinta in contemporanea con l’originale, un’ipotesi intrigante». È uno dei tanti misteri che circondano vita e opera del grande da Vinci. Di certo Monna Lisa reincontrerà la sua copia gemella per la mostra-evento europeo della primavera.
fonte Secolo XIX