Non si passa, e non si può neanche vedere. La pericolosità del sito di Sellafield, Inghilterra, si percepisce anche da Google Maps: l’omino della Street View si ferma davanti alle sbarre che recintano l’area “di un miglio per un miglio e mezzo” sulla costa del mar d’Irlanda, nel nord dell’Inghilterra: siamo nella Cumbria, contea non metropolitana, terra di campagne, boschi e mucche al confine con la Scozia. Terra che porta sulle spalle il fardello di un pesante passato. Quello della nuclearizzazione forzata del Regno Unito, e del più grande deposito di plutonio che un sito civile contenga in tutto il mondo: proprio lì, a 500 km da Londra, a molti meno da Edimburgo; davanti ai centri abitati dell’Isola di Man e, dall’altra parte del mare, il porto di Belfast, Irlanda del Nord. Una bomba radioattiva come tante altre chiusa dentro contenitori stagni che evitano la fuoriuscita di radiazioni tossiche, sigillando al proprio interno i rifiuti tossici: ma che rendono difficilissimo, se non impossibile, qualsiasi atto di disposizione di questo pericoloso materiale, che così non può fare altro che rimanere inerte, immobile, a minacciare l’ambiente circostante sempre all’erta per qualsiasi perdita si possa verificare. E lasciano il cerino in mano ai governi che si devono sobbarcare l’onere, a giro, di decidere quale debba essere il destino di quella che è, sostanzialmente, benzina per centrali nucleari: accenderla e bruciarla, o trovare un modo per gestirla, trasformarla, renderla innocua? I termini della questione, che ieri ha visto l’ultimo atto andare in scena (ultimo solo cronologicamente, di certo non nel senso di “finale”), sono esattamente questi. Prima, un po’ di storia, da un reportage persino un po’ datato del Guardian: non che la situazione, ad oggi, sia mutata più di tanto. Già nel 2009 i due container principali del deposito di Sellafield erano chiamati “il primo” e “il secondo” sito industriale in Europa per pericolosità: sulla costa del mar d’Irlanda giacciono, fra gli altri materiali, giusto 100 tonnellate di plutonio di cui non si sa che fare, per non parlare delle altre scorie causate, dicono i
comitati dei cittadini, da “anni di riprocessamento”. “Già un deposito della seconda guerra mondiale”, racconta il
Guardian, “Sellafield è stato scelto per essere il sto dei primi reattori atomici inclesi – noti come Pile 1 e 2. Non per generare elettricità, ma per produrre plutonio per il deterrente atomico nazionale. La costruzione è stata spinta a velocità impressionanti mentre i leader politici hanno spinto gli scienziati a completare il progetto velocemente”. I risultati sono arrivati: bomba atomica nel 1952 e poltrona d’oro come membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu; ma anche tre silos di materiale radioattivo che da cinquant’anni rimangono come un macigno sulla costa incontaminata dell’Inghilterra del Nord. Dentro i depositi, come il B30 e il B38, “pile di vecchie parti di reattori nucleari e di sbarre di combustibile, molte di esse di provenienza e di età sconosciuta; pezzi di metallo contaminato squagliati in fango che emette dosi letali di radiazioni”. Gli ingegneri, dice il Guardian, ad oggi hanno “solo una vaga idea di cos’altro possa essere stato sganciato nelle vasche di raffreddamento e lasciato a disintegrarsi negli scorsi decenni”. Da anni il governo, qualsiasi sia il colore politico, su Sellafield fa un vero e proprio ping pong. E ieri, dicevamo, l’ultima racchettata in uno scoop
dell’Independent: il governo inglese ha stretto un accordo di massima per permettere ad una società americana, la General Electic in partnership con la Hitachi, di studiare la fattibilità di una nuova centrale elettrica proprio a Sellafield, per la precisione una centrale a neutroni veloci di tipo Prism (Power Reactor Innovative Small Modular), una tecnologia in parte diversa da quella dei reattori tradizionali che ha il vantaggio di creare meno scorie ma è molto più costosa e molto più difficile da gestire. Questo, nonostante “il progetto di reattori veloci sia stato abbandonato quasi vent’anni fa e proprio ieri sia stato annunciato che sito di Douneray in Scozia sarà smantellato entro il 2025 al costo di oltre 2 miliardi di sterline. Tuttavia, l’Independent può rivelare che le autorità nucleari hanno firmato un accordo per indagare la possibilità di costruire un reattore su progetto americano per “bruciare” il plutonio proprio a Sellafield”. E’ una delle ipotesi possibili: o si brucia tutto e si crea nuova energia (e nuove scorie), oppure si trova un modo per gestire i rifiuti senza produzione di corrente, principalmente utilizzando il plutonio per la produzione del combustibile di risulta, il Mox (mixed oxide fuel), una miscela di scarti di uranio e plutonio: va detto, questa scelta dal governo inglese è una vera e propria inversione ad U rispetto agli impegni presi, visto che lo scorso novembre la stessa Ge-Hitachi propose lo stesso progetto e il governo, solo tre mesi fa, disse che la tecnologia era inadeguata. Questo strano gioco viene ricostruito dai media inglesi. Era il 30 novembre dell’anno scorso quando la GE proponeva di costruire il Prism a Sellafield: “Possiamo prendere quelle 100 tonnellate di ossido di plutonio e metterlo nel nostro reattore per tirare fuori l’energia. Costerà meno che costruire nuove centrali Mox”,
diceva Danny Roderick, della GE-Hitachi, paventando la costruzione di questa centrale da 600 megawatt in grado di bruciare tutto in cinque anni. A gennaio, il disco rosso del governo di sua Maestà; a parlare è il direttore strategico della Nuclear Decommissioning Authority inglese, l’ente che si occupa di gestire il destino degli impianti disattivi di Sellafield: “Abbiamo cercato di raggiungere un accordo chiaro sul lavoro necessario per dimostrare la credibilità del piano, senza il quale né la NDA né il governo può considerare ulteriormente il Prism. Abbiamo avviato un lavoro approfondito sul reattore. La tecnologia”,
parole dure, “deve essere ancora dimostrata commercialmente, e la maturità tecnologica del combustibile, del reattore e dell’impianto di riciclaggio sono tutte troppo basse”. Non solo: siccome il plutonio attualmente è conservato nella sua forma ossidata, e per poterlo bruciare nel Prism deve essere convertito in metallo, questo processo causerebbe “un grande ammontare di sali di plutonio contaminati che richiedono gestione”. Insomma, altre scorie. E poi, il ripensamento: “Questo accordo”, picchia l’Independent, “rappresenta davvero un ragguardevole ripensamento da parte dell’Nda che ha sempre detto di preferire il plutonio ad una seconda centrale”, visto che il primo impianto Mox è stato “chiuso dopo una serie di fallimenti costati oltre un miliardo di sterline”. Dalla Nda sostengono che l’accordo è soltanto una porta aperta alla GE che, dopo il primo rifiuto, è tornata sostenendo che la propria tecnologia fosse ad uno stato di avanzamento maggiore di quanto precedentemente ritenuto: “Allo stato, non ci sono prove che cambino la posizione della NDA sul fatto che i reattori a neutroni veloci non siano un’opzione credibile”. Sta di fatto che la GE proporrà, di nuovo, la stessa tecnologia: senza che il problema, per ora, presenti una qualche soluzione. I cittadini della zona, intanto, non possono fare altro che organizzarsi nei tanti comitati che chiedono la Cumbria libera dalla minaccia radioattiva e ricordare i ben due incidenti che Sellafield ha generato, uno più devastante dell’altro. Prima di chiamarsi Sellafield, il sito era noto come Windscale: “Nello specifico, il 7 ottobre 1957 nel complesso nucleare di Windscale”, ricorda
Wikipedia” dove si produceva plutonio per scopi militari, un incendio nel nocciolo di un reattore nucleare a gas generò una nube radioattiva imponente, pari al 1/10 della bomba atomica di Hiroshima. I principali materiali rilasciati furono gli isotopi radioattivi di xenon, iodio, cesio e polonio. La nube attraversò l’Europa intera. Sono stati ufficializzati soltanto 300 morti per cause ricondotte all’incidente (malattie, leucemie, tumori) ma il dato potrebbe essere sottostimato. La radioattività su Londra giunse fino a 20 volte oltre il valore naturale, e Londra dista da Windscale 500 km. Il consumo di latte venne vietato in un raggio di 50 km”. La classificazione Ines per il disastro del 1957 è di 5 su 7, davvero pesante dunque; e pochi anni fa, ovvero nel 2004, una perdita importante di 83 metri cubi di una soluzione di acido nitrico contenente uranio e plutonio causò un’allarme mai rientrato, con indicatore 3 su 7.