domenica 26 settembre 2010

SABBIA ANCESTRALE

Non gli era bastato creare il mondo: il dio Beeral voleva anche che fosse bello. Così mandò due fidati messaggeri, Yindingie e la sua assistente K’gari, a trasformare in paradiso la materia informe appena creata. Fecero un lavoro così perfetto che quando ebbero finito K’gari sperò di rimanere in quel luogo meraviglioso per sempre. Si adagiò nelle acque tiepide di una baia particolarmente bella e si addormentò. Mentre K’gari era immersa nel sonno, Yindingie la trasformò in una lunga e sottile isola di sabbia cristallina. Il dio la rivestì con la più lussureggiante delle foreste, dipinse la sua pelle vellutata con un arcobaleno di colori e le donò tanti laghetti scintillanti che sarebbero diventati i suoi occhi sul paradiso. Riempì il cielo di uccelli colorati e per non lasciarla mai sola popolò l’isola con una tribù di aborigeni, i Butchulla, che si tramandarono la leggenda della sua creazione. Nella loro lingua, K’gari divenne la parola per “paradiso”. Molto tempo è passato da allora. Oggi quel paradiso è chiamato Fraser Island, dal nome del capitano di vascello scozzese che qui naufragò insieme alla moglie nel 1836. Comunque la si chiami, l’isola rimane un posto speciale che si insinua nel cuore di chiunque vi approdi. I suggestivi paesaggi di Fraser Island hanno ispirato i più grandi artisti e scrittori australiani, e negli anni Settanta i suoi delicati ecosistemi sono stati oggetto di un’appassionata campagna ambientalista che ha fermato il saccheggio delle spiagge per l’estrazione di minerali e quello della foresta per il legname. Per le successive generazioni di residenti e turisti l’isola è diventata un prisma attraverso cui osservare e ammirare la bellezza del bush australiano in tutte le sue sfumature. Malgrado sia stata il soggetto di tante opere d’arte e di letteratura, Fraser Island non si presta a facili descrizioni. Si cammina sotto la volta di gigantesche felci e palme australiane (Archontophoenix cunninghamiana) e un attimo dopo ci si ritrova in un bosco di profumati eucalipti; attraverso i rami degli alberi appare una distesa di dune dorate e oltre quelle, avvolte nella calda foschia estiva, si stendono collinette impreziosite da fiori selvatici dai colori brillanti. Ci si aspetterebbe di vedere paesaggi così diversi tra loro a centinaia di chilometri di distanza, ma qui si susseguono come figure di un caleidoscopio. Quel che è più sorprendente, forse, è scoprire che sull’isola tutto cresce praticamente sulla sabbia trattenuta da umili funghi. La tela di questo paesaggio da sogno è intessuta di fili sottilissimi. «Mi piace pensare che l’isola sia un organismo vivente a sé stante, come la Grande Barriera Corallina», dice Peter Meyer, un naturalista che vive e lavora come guida a Fraser Island da 15 anni. «Qui, al posto dei polipi dei coralli, abbiamo i funghi micorrizici e la loro associazione simbiotica con le piante è alla base di tutto. Rilasciando le sostanze nutritive nella sabbia, i funghi rendono possibile la crescita di questa meravigliosa vegetazione. Se non ci fossero non avremmo altro che un banco di sabbia». Un banco davvero molto grande: lungo più di 120 chilometri, largo circa 25, con dune che si innalzano fino a 240 metri. Su questo tratto della costa del Queensland la sabbia si accumula da quasi 750 mila anni, grazie anche alla roccia vulcanica che diventa una trappola naturale per il sedimento trasportato lungo la costa orientale da una forte corrente. Il navigatore inglese James Cook, che veleggiò in questi mari nel 1770, fu il primo europeo ad avvistare Fraser Island. Il giramondo originario dello Yorkshire non le diede molta importanza e la liquidò con poche righe frettolose sul giornale di bordo. In maniera analoga si comportò l’esploratore Matthew Flinders, che attraccò sull’isola circa trent’anni dopo. All’epoca, la natura incontaminata era considerata una risorsa da dominare e sfruttare, e non da ammirare in quanto tale. Per questa ragione l’interno dell’isola suscitò l’interesse di Edward Armitage, commerciante di legname dei primi del Novecento. Fu lui a fornirci le prime descrizioni delle splendide foreste pluviali di Fraser Island, pur lamentandosi del fatto che molti dei “grandi sovrani della foresta” fossero troppo voluminosi per le segherie del tempo. Ben presto, il progresso fornì macchinari più potenti e per più di un secolo le foreste dell’isola furono disboscate. Cospicue quantità di legname venivano spedite in diverse parti del mondo e utilizzate per la costruzione delle grandi opere dell’Impero, come il Canale di Suez e, dopo la Seconda guerra mondiale, i Tilbury Docks di Londra. Alla fine degli anni Quaranta comparve sulla scena uno dei primi e rari turisti. Sidney Nolan, uno dei massimi pittori australiani del Novecento, compì un viaggio nel Queensland cercando ispirazione nel paesaggio e si imbatté nella storia, ormai quasi dimenticata, del naufragio e della sopravvivenza della coppia a cui un secolo prima era stata intitolata l’isola. Nel 1836 la Stirling Castle, comandata dal capitano James Fraser, salpò da Sydney diretta a Singapore con a bordo 18 persone tra equipaggio e passeggeri, inclusa Eliza, la moglie del comandante. Alcuni giorni dopo la partenza, la nave si infilò nei labirintici passaggi della barriera, il corallo aprì una falla e l’imbarcazione iniziò lentamente ad affondare. Passeggeri ed equipaggio si accalcarono in due scialuppe e si diressero verso un insediamento a Moreton Bay (l’attuale Brisbane), centinaia di chilometri più a sud. Il viaggio fu un incubo, soprattutto per Eliza, che a quel che si racconta era in avanzato stato di gravidanza e finì col partorire nella scialuppa; il neonato morì poco dopo. La situazione peggiorò per i compagni di sventura del capitano e della moglie: la loro imbarcazione non riusciva a reggere il mare, tanto che l’altra scialuppa decise di abbandonarli e di proseguire per proprio conto. Alla fine, dopo più di un mese dal naufragio, i sopravvissuti furono costretti ad attraccare in quella che allora era nota come Great Sandy Island (“grande isola sabbiosa”). Ciò che accadde dopo non è chiaro. Secondo alcuni racconti i naufraghi barattarono i loro vestiti con i Butchulla in cambio di cibo. Secondo altri, gli aborigeni si impadronirono con la forza dei loro abiti e li ridussero in schiavitù. In ogni caso, è probabile che la fame, le malattie e gli stenti ebbero ragione della maggior parte dei naufraghi compreso il capitano Fraser. Quanto a Eliza, la donna dichiarò poi di essere stata obbligata a lavorare duramente nell’accampamento aborigeno, raccogliendo radici e legna per il fuoco. La notizia della sua prigionia giunse finalmente alle autorità di Moreton Bay che decisero di inviare una squadra di soccorso. Un galeotto irlandese di nome John Graham, che aveva vissuto da fuggiasco nel bush e conosceva la lingua degli aborigeni, riuscì a negoziare il rilascio della donna. Il resto della storia è degno della migliore tradizione della stampa scandalistica. Alcuni mesi dopo la liberazione Eliza conobbe un altro capitano di vascello, lo sposò e si trasferì in Inghilterra, dove divenne un’attrazione nel parco dei divertimenti di Hyde Park a Londra, sciorinando racconti sempre più cruenti di delitti, torture, tratta delle bianche e cannibalismo davanti a spettatori incantati che pagavano sei penny ciascuno. Purtroppo per lei, nulla perde d’interesse più in fretta delle notizie del giorno prima e ben presto Eliza ripiombò nell’anonimato. A quanto si sa si trasferì in Nuova Zelanda, per poi morire in un incidente con una carrozza durante un viaggio a Melbourne nel 1858. Sidney Nolan fu conquistato dai toni melodrammatici dei racconti di Eliza Fraser e dal potente simbolismo dell’immagine degli europei che, spogliati della loro parvenza di civiltà, lottano per sopravvivere in un ambiente sconosciuto. Così si imbarcò su una chiatta per vedere Fraser Island con i propri occhi. “L’anima di questo luogo mi ha stregato”, scrisse a un amico. Il fascino dell’isola non lo avrebbe mai più abbandonato, ispirandogli due serie di oltre 25 dipinti. Nolan contagiò con la sua passione l’amico Patrick White, scrittore insignito del premio Nobel che visitò l’isola negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta e ambientò in quei paesaggi incontaminati il romanzo L’occhio dell’uragano (1973) e il racconto dell’avventura di Eliza, Una frangia di foglie. Nel 1770 il capitano Cook non fu impressionato dalle coste ricoperte d’arbusti che vide dalla sua nave. Ma dopo poco più di due secoli, artisti, scrittori, scienziati e politici hanno abbracciato la causa di Fraser Island, che nel 1992 è stata dichiarata Patrimonio Naturale dell’Umanità. L’isola, che ha contribuito a forgiare il senso di bellezza naturale degli australiani, oggi attira moltissimi turisti: un risultato cui forse mirava il saggio dio Beeral quando mandò Yindingie e K’gari ad abbellire il mondo da lui creato.

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