domenica 11 luglio 2010

L'UOMO SERPENTE

Nel momento della resa dei conti manca l’uomo che li può chiudere: Rob Rensenbrink, il nome con cui l’Olanda ha archiviato un ciclo di gloria senza vincere nulla. Rob, uomo serpente, nel 1978 ha centrato il palo nell’ultimo minuto buono per diventare campioni nella finale persa con l’Argentina. L’occasione si ripresenta solo 32 anni dopo. Senza di lui. Non si trova, è scomparso, si è nascosto perché tanto la sua storia non si può aggiustare, comunque vada domani. Poteva essere l’idolo di una nazione, poteva essere Mario Kempes e invece è il simbolo di un successo abortito. Un rimpianto ambulante. Amsterdam lo ha cercato per invitarlo alla festa post finale, la Fifa lo voleva tra gli ospiti, una radio olandese ha messo su una maratona stile «Chi l’ha visto» in cui non ha raccolto che bufale. Lo davano barricato in una casa affacciata sul canale senza ingresso via terra, in Belgio, dove ha giocato per tutta al carriera, in Francia sotto falso nome, ogni pista si è persa nell’assurdo. L’uomo serpente non c’è, non ne vuole sapere e pazienza se la generazione Sneijder ha detto di giocare anche per lui. Rob con questa finale non c’entra e l’Olanda dovrà farsene una ragione. Rensenbrink era un talento timido, dicevano che fosse come Cruijff senza però un minimo di fiducia in se stesso. Lo chiamavano uomo serpente perché era un contorsionista e mandava in bambola gli avversari. Il pallone lo seguiva sempre. Fa il suo esordio in Oranje proprio nel 1974, in uno dei due Mondiali da favola con finale da incubo. Allora non doveva essere titolare, è entrato in campo grazie a una delle tante risse «dutch»: Johan Cruijff litiga con Piet Keizer e il ct Rinus Michels cambia l’attacco. Rensenbrink fa bella figura e il carattere introverso lo aiuta. Crujiff non si sente minacciato e dà il meglio. In semifinale l’uomo serpente si fa male, il tecnico lo rischia con la Germania, ma lui non sta in piedi. Esce alla fine del primo tempo. Pazienza, non è il suo Mondiale, ha tempo. Con l’Anderlecht vince (i campionati prima del 1974, le coppe prima del 1978), ai Mondiali argentini è pronto per essere protagonista però il ruolo non gli piace. Segna e si defila, firma persino il gol numero mille della Nazionale (in una partitaccia contro la Scozia) e quando arriva in fondo, davanti all’Argentina, è l’alterego di Kempes. Cinque reti (4 su rigore), esperienza, attenzione: è il momento di passare alla dimensione mito. Va in vantaggio l’Argentina (proprio Kempes), pareggia l’Olanda (Nanninga), poi tocca a lui. La palla buona arriva nel momento migliore, 90’, numero tondo che chiama la perfezione. Tutto tornerebbe: l’Arancia meccanica, la squadra del calcio totale sta per prendersi la rivincita sul destino, sta per oscurare il 1974 e Krol serve Rensenbrink, libero e solo davanti alla porta. Rob prende il palo in pieno e guarda il pallone rimbalzare mentre sta sdraiato a terra. Mentre sta già fuori. L’Argentina di Kempes vince 3-1 ai supplementari, l’Olanda di Rensenbrink torna all’agonia. Eterna incompiuta. Rob gioca ancora qualche partita, si trasferisce in America, chiude la carriera in Francia e mette via quel che gli serve per poter stare alla larga dal pallone. Non diventa tecnico, né dirigente, neanche spettatore. Però fino a due anni fa è sempre stato disponibile a ripetere frasi come: «Per l’Olanda continuerò a prendere il palo per tutta la vita», «Meno di 5 centimetri e avrei modificato la storia del calcio», «Se avessi segnato avrebbero annullato il gol, doveva vincere l’Argentina». Stavolta sta zitto e lontano. Non farà da boa per l’Olanda che vuole girare al largo dal passato e cambiare finale. Quel gol mancato se lo è lasciato alle spalle: che la Nazionale di oggi trovi la sua strada. Non c’è bisogno di guardare indietro.

Nessun commento: