Papua, la provincia più orientale dell'Indonesia, vuole l'indipendenza. Che Jakarta, considerando le ricchezze naturali coinvolte, non le concederà mai.
Sono lontani da tutto: geograficamente e culturalmente da una capitale (Jakarta) che non riconoscono come loro, per di più praticamente sconosciuti a un Occidente che pur simpatizza con le simili aspirazioni di curdi e tibetani. Ma gli abitanti nella remota Papua occidentale (o solo Papua, per gli indonesiani) potrebbero presto far parlare di sé, perché la situazione sul campo - come denuncia la recente analisi di un think tank australiano - rischia di degenerare. Insoddisfatti di un'autonomia mai davvero applicata, i papuani chiedono ora l'indipendenza. Una prospettiva che l'Indonesia, date le ingenti risorse naturali di questa terra, non ha certo intenzione di far diventare realtà. Dopo la delibera della "Camera bassa" della provincia, che in giugno ha deciso di rigettare lo status di autonomia concesso nel 2001, a inizio luglio migliaia di papuani (almeno 20 mila secondo fonti locali, un decimo per la stampa di Jakarta) hanno circondato il Parlamento della capitale provinciale Jayapura, difeso da centinaia di soldati e poliziotti. La manifestazione si è poi spenta gradualmente, senza dar vita ai temuti scontri. Ma la domanda d'indipendenza rimane attuale, e in agosto verrà affrontata anche dalla "Camera alta" della provincia, che valuterà una richiesta formale al governo di Jakarta. L'indipendenza fu sfiorata negli anni Sessanta, ma mai si concretizzò. Ex colonia olandese, come il resto dell'arcipelago, Papua cullò il sogno di essere completamente autonoma, ma gli ex padroni olandesi la lasciarono invece sotto una provvisoria amministrazione dell'Onu. Nel 1969, un migliaio di leader tribali furono costretti - sotto la minaccia del fucile, letteralmente - a votare per l'annessione all'Indonesia: l' "Atto di libera scelta", come fu paradossalmente chiamata la decisione, ottenne il 100 percento dei voti favorevoli. Gli Usa, che ai tempi della guerra del Vietnam contavano più che mai sull'Indonesia come alleato moderato nella regione, non ebbero da ridire. Anzi: il loro tacito appoggio fu premiato con una legge che permise nuovi investimenti stranieri. La Freeport-McMoRan, società americana, fu la prima a strappare la concessione che ancora oggi le permette estrarre oro e rame da Papua. Nella provincia più orientale dell'arcipelago indonesiano, di cui occupa un quinto della superficie, le ricchezze naturali sono enormi. Oro, rame, metano, legname, olio di palma: nelle foreste dell'isola, divisa a metà dal confine che separa la parte indonesiana e l'indipendente Papua Nuova Guinea, c'è l'imbarazzo della scelta. Le compagnie straniere, come l'americana Freeport e l'australian Bhp Billiton, mungono le risorse della provincia, e il governo indonesiano ci guadagna di conseguenza. Ai papuani, lamentano gli abitanti, arrivano le briciole. Oltretutto, negli ultimi anni Jakarta ha incentivato l'emigrazione interna di indonesiani verso Papua, tanto da diluire la popolazione autoctona e ridurre ulteriormente la fetta di economia da essa controllata: un altro fattore di scontento per i locali, etnicamente diversissimi - sono melanesiani, più simili agli aborigeni australiani - dagli "indonesiani", come chiamano collettivamente qualsiasi persona proveniente dal resto dell'arcipelago. Rivendicazioni che si concretizzano in un vasto appoggio ai ribelli del Free Papua Movement. La presenza militare indonesiana, specie a protezione delle terre ricche di risorse, è imponente ma non riesce a impedire episodi di violenza; nell'ultimo anno, diversi agguati a dipendenti delle compagnie straniere hanno causato tre morti e decine di feriti. Sostenere la causa indipendentista, o anche esporre la bandiera nazionale, può costare il carcere; i racconti di torture e altre intimidazioni sono diffusi. Ma nelle impenetrabili foreste papuane, i ribelli - armati di archi e lance di legno - godono di diverse roccaforti. Finora Jakarta - che proibisce l'accesso a Papua ai giornalisti - ha tollerato, senza usare la mano pesante. Ma se le manifestazioni popolari dovessero continuare, il rischio di violenze non potrà che aumentare.
FONTE: PACEREPORTER
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