Il Daghestan era la repubblica del Caucaso più fedele al Cremlino. Ma ora povertà, disoccupazione, corruzione e crisi economica rischiano di farla esplodere. Finito il regime antiterrorismo in Cecenia, l’instabilità si è trasferita qui. Attentati, scontri a fuoco contro truppe federali, autorità filorusse e polizia locale da parte di "ribelli fondamentalisti" quotidiani. Con centinaia di morti. Ma per molti l'islam è solo una scusa. Il reportage di Lucia Sgueglia ci spiega qualcosa in piu' di questo paese dimenticato.
“In memoria dello sceicco che difese la libertà dei montanari del Caucaso”. Sottointeso: contro Mosca. La lapide, incisa in arabo e avaro, una delle tante lingue locali, sta conficcata sulla cima più alta che guarda la valle di Umtsukul. Annodati alla balaustra centinaia di fazzoletti votivi ondeggiano nel vento, sotto una bandiera verde con la mezzaluna il tramonto si riempie dei richiami dei muezzin. Russia, Daghestan, anno 2009. Tra queste valli nacque, visse e combatté il leggendario imam Shamil, simbolo della fiera resistenza contro l’invasore russo – dagli zar a oggi. D’estate ci vengono in pellegrinaggio coi pulman, anche da Grozny che sta a un tiro di schioppo. Un ritratto dell’eroe barbuto pende in ogni casa. Paradossale, che questa sia da anni la repubblica del Caucaso più fedele al Cremlino. Ma ora povertà, disoccupazione, corruzione e crisi economica rischiano di farla esplodere. Finito il regime antiterrorismo in Cecenia, l’instabilità si è trasferita qui. Attentati dinamitardi e scontri a fuoco contro truppe federali, autorità filorusse e polizia locale da parte di ribelli armati sono quotidiani. Centinaia di morti nell’ultimo anno. A giugno la violenza ha raggiunto in pieno giorno nella capitale Makhachkala il ministro degli interni Adilgirey Magomedtagirov: freddato da cecchini a un matrimonio. A novembre esplosioni hanno colpito un importante gasdotto e due treni di passaggio. Per il governo locale è opera di non più di 150 “wahabiti”, separatisti seguaci dell’islam più integralista. Ma le massicce operazioni militari lanciate per stanarli, con l’aiuto di Mosca, tengono ormai la repubblica in ostaggio di posti di blocco e zone vietate. La situazione pare fuori controllo. “L’indipendenza? Piacerebbe a tutti - ammette Gamzan, ufficiale dei servizi segreti e poeta. – Ma non ce la possiamo permettere, ora. L’esercito russo è troppo forte, anche Shamil dopo 25 anni di guerra si arrese. Non abbiamo risorse né industrie nostre. Non ci siamo uniti volontariamente alla Russia, e volontariamente non ce ne andremo – si usa dire da queste parti”. Più realisti del re. Ma l’orgoglio per cultura e tradizioni proprie, unito alla crescente insofferenza per il potere centrale, sono palpabili ovunque. Viene in mente il monito del politologo Kagarlitsky: “Se il Daghestan esplode, la Cecenia sembrerà una barzelletta educata”. Magomed fa l’autista, in servizio non rinuncia ai 5 namaz quotidiani, nel cellulare conserva sure cantate del Corano: “Qui siamo veri musulmani. Non ‘russizzati’ come altri popoli caucasici. A casa come molti seguo la sharia con mia moglie. È una nostra decisione libera e privata, che male c’è?”. Ovvio che Mosca abbia paura. Ma il problema non è l’islam in sé. Tra i picchi di Samodan è già notte. In una stanza buia una sessantina di donne accucciate in terra intona una litania intrecciata a parole in arabo. Ondeggiano finché quel canto-lamento diventa trance: è la zikr dei sufi. A valle, oltre un grande arco dai decori asiatici che porta a Hedba, si arriva alla nuova, grande madrassa. Ospita 100 allievi. “Nell’800 ci viveva un famoso eremita sufi”, spiega Mohammad Gadzhiev, uno degli insegnanti. Il sufismo, corrente pacifica e moderata dell’islam, è la “religione ufficiale” in Daghestan, “conforme alla tradizione”. Lo Stato lo supporta per contrastare il rischio del fondamentalismo, che va diffondendosi soprattutto nelle zone rurali. Una lotta condotta a colpi di libri, dvd, programmi tv. Gadzhiev mostra la foto di un ex collega, autore di testi contro l’islam radicale: assassinato in circostanze misteriose. E non è l’unico. Molti qui parlano con disinvoltura di sharia… “Non è che la legge di Dio”, precisa il docente. E i ribelli in nome di Allah? “Sono molto giovani, anche studenti universitari, delusi da un potere corrotto e dominato dagli anziani. In teoria anche noi vorremmo uno stato islamico. Ma l’islam rifiuta ogni violenza. Quelli invece non accettano mediazioni, vogliono un califfato nel Caucaso e predicano la jihad”. In epoca sovietica si pregava di nascosto nelle case: “Ho studiato in un monastero illegale, uno dei primi. Morta l’Urss, negli anni 90 aprirono scuole coraniche, e in mezzo al caos politico arrivarono anche salafiti dall’estero, che plagiarono i nostri ragazzi’”. Poi due guerre in Cecenia, migliaia di morti e profughi. E oggi? “Speriamo che lo Stato riconosca l’educazione islamica a scuola, già succede in altre repubbliche russe, perché noi no?”. L’80 per cento dei russi pellegrini alla Mecca sono daghestani. Più in alto c’è il villaggio di Assab, “alcool-free”. La legge di Maometto fa a pugni con quella russa? “Mosca non ci obbliga a bere alcool! Piuttosto, abbiam problemi con la tradizione dei clan… l’islam è internazionalista, abbatte tutte le differenze, etnie comprese”. Forse per questo il potere lo teme: divide et impera. Nell’islam rigoroso, qualcuno cerca un rinnovamento morale. “Da noi la corruzione si respira fin nella culla - ammette l’ex poliziotto Timur. - Paghi per ottenere un lavoro, un buono stipendio, un posto in ospedale o a scuola. Per non far la fila negli uffici, costruire in riva al mare dove è proibito”. Per Svetlana Issaeva, leader delle Madri del Daghestan per i Diritti Umani, la religione è solo una scusa, gli abusi sui “sospetti estremisti” la regola. “Oggi in Russia esiste un Islam di Stato: chi non è con loro, è un nemico del popolo, alla sovietica. A Mosca non importa nulla della fede, vuole solo che il Daghestan resti russo, evitare guerre. Per questo dà carta bianca al potere locale. E quello usa il fondamentalismo per reprimere gli oppositori politici”. Un mix pericoloso. A settembre il nome di Issaeva è comparso in una misteriosa “lista di esecuzione” su volantini, insieme a giornalisti d’opposizione. Anche un foulard troppo coprente può causare problemi. H., 26 anni, vedova di un guerrigliero, lo porta stretto al collo sull’abito lungo. Sta rovistando tra gli stand d’abbigliamento di uno dei tanti “negozi islamici” nel mercato nord di Derbent, quando irrompono uomini dei servizi segreti a chiedere i documenti. La proprietaria protesta: “Questa è propaganda anti-islamica. Ci perseguitano se diciamo inshallah, se ci veliamo troppo e non beviamo. Ficcano il naso nella nostra privacy, stendono liste coi cognomi di famiglie da non ammettere ai posti pubblici. Wahabita? Letteralmente significa Colui che dona. Il vice mufti ha detto in tv che chi ne uccide uno, va in paradiso”. A pochi chilometri c’è l’Azerbaijan: qui finisce la Russia. Nella grande moschea del centro storico, tra vicoli di terra ocra che ricordano Aleppo, sciiti e sunniti pregano insieme. “Russia? Questo è Oriente” riassume la vicesindaca sotto la statua di Lenin nella piazza. A ottobre scorso nelle elezioni locali un terzo dei seggi si è rifiutato di aprire, tra pressioni politiche e scorte militari agli scrutinatori. Nel 2006 zar Putin atterrò sulla fortezza in elicottero: “Siete il nostro baluardo contro il terrorismo internazionale”. Sembrano d’accordo Madina, Elmira ed Elona: nell’antica Filarmonica di Makhachkala, tra tappezzerie che si sfogliano come petali, provano un saggio di break dance, minigonna e ombelico in vista. Una è di etnia lachka, l’altra kumika, l’ultima avara. Sognano di lavorare a Mosca, là le ragazze son più libere: “Gli imam? Bigottoni. Il russo è il nostro esperanto: senza, non potremmo capirci tra noi”.
NUMERI
Daghestan è la repubblica del Caucaso russo più meridionale, più islamizzata, più grande e multietnica: 2,7 milioni di abitanti, oltre 30 etnie e lingue (il 30% avari). Confina con la Cecenia “pacificata” dal Cremlino, Georgia, Azerbajijan e mar Caspio ove si affaccia l’Iran. Fino al 2006 il sistema politico era basato sulla distribuzione del potere tra gruppi etnici. Mosca l’ha abolito e introdotto la carica presidenziale, fomentando nuove tensioni. A febbraio 2010 scade il mandato dell’attuale leader Mukhu Aliev. Fuori da Makhachkala, l’arabo è diffuso sulle insegne. Dal 1999 il wahabismo è fuorilegge: chiusi i media d’ispirazione islamico-intransigente, e le moschee “non conformi”. 180 gli attacchi armati da gennaio 2009 contro uomini delle forze di sicurezza, con 50 vittime e 120 feriti.
“In memoria dello sceicco che difese la libertà dei montanari del Caucaso”. Sottointeso: contro Mosca. La lapide, incisa in arabo e avaro, una delle tante lingue locali, sta conficcata sulla cima più alta che guarda la valle di Umtsukul. Annodati alla balaustra centinaia di fazzoletti votivi ondeggiano nel vento, sotto una bandiera verde con la mezzaluna il tramonto si riempie dei richiami dei muezzin. Russia, Daghestan, anno 2009. Tra queste valli nacque, visse e combatté il leggendario imam Shamil, simbolo della fiera resistenza contro l’invasore russo – dagli zar a oggi. D’estate ci vengono in pellegrinaggio coi pulman, anche da Grozny che sta a un tiro di schioppo. Un ritratto dell’eroe barbuto pende in ogni casa. Paradossale, che questa sia da anni la repubblica del Caucaso più fedele al Cremlino. Ma ora povertà, disoccupazione, corruzione e crisi economica rischiano di farla esplodere. Finito il regime antiterrorismo in Cecenia, l’instabilità si è trasferita qui. Attentati dinamitardi e scontri a fuoco contro truppe federali, autorità filorusse e polizia locale da parte di ribelli armati sono quotidiani. Centinaia di morti nell’ultimo anno. A giugno la violenza ha raggiunto in pieno giorno nella capitale Makhachkala il ministro degli interni Adilgirey Magomedtagirov: freddato da cecchini a un matrimonio. A novembre esplosioni hanno colpito un importante gasdotto e due treni di passaggio. Per il governo locale è opera di non più di 150 “wahabiti”, separatisti seguaci dell’islam più integralista. Ma le massicce operazioni militari lanciate per stanarli, con l’aiuto di Mosca, tengono ormai la repubblica in ostaggio di posti di blocco e zone vietate. La situazione pare fuori controllo. “L’indipendenza? Piacerebbe a tutti - ammette Gamzan, ufficiale dei servizi segreti e poeta. – Ma non ce la possiamo permettere, ora. L’esercito russo è troppo forte, anche Shamil dopo 25 anni di guerra si arrese. Non abbiamo risorse né industrie nostre. Non ci siamo uniti volontariamente alla Russia, e volontariamente non ce ne andremo – si usa dire da queste parti”. Più realisti del re. Ma l’orgoglio per cultura e tradizioni proprie, unito alla crescente insofferenza per il potere centrale, sono palpabili ovunque. Viene in mente il monito del politologo Kagarlitsky: “Se il Daghestan esplode, la Cecenia sembrerà una barzelletta educata”. Magomed fa l’autista, in servizio non rinuncia ai 5 namaz quotidiani, nel cellulare conserva sure cantate del Corano: “Qui siamo veri musulmani. Non ‘russizzati’ come altri popoli caucasici. A casa come molti seguo la sharia con mia moglie. È una nostra decisione libera e privata, che male c’è?”. Ovvio che Mosca abbia paura. Ma il problema non è l’islam in sé. Tra i picchi di Samodan è già notte. In una stanza buia una sessantina di donne accucciate in terra intona una litania intrecciata a parole in arabo. Ondeggiano finché quel canto-lamento diventa trance: è la zikr dei sufi. A valle, oltre un grande arco dai decori asiatici che porta a Hedba, si arriva alla nuova, grande madrassa. Ospita 100 allievi. “Nell’800 ci viveva un famoso eremita sufi”, spiega Mohammad Gadzhiev, uno degli insegnanti. Il sufismo, corrente pacifica e moderata dell’islam, è la “religione ufficiale” in Daghestan, “conforme alla tradizione”. Lo Stato lo supporta per contrastare il rischio del fondamentalismo, che va diffondendosi soprattutto nelle zone rurali. Una lotta condotta a colpi di libri, dvd, programmi tv. Gadzhiev mostra la foto di un ex collega, autore di testi contro l’islam radicale: assassinato in circostanze misteriose. E non è l’unico. Molti qui parlano con disinvoltura di sharia… “Non è che la legge di Dio”, precisa il docente. E i ribelli in nome di Allah? “Sono molto giovani, anche studenti universitari, delusi da un potere corrotto e dominato dagli anziani. In teoria anche noi vorremmo uno stato islamico. Ma l’islam rifiuta ogni violenza. Quelli invece non accettano mediazioni, vogliono un califfato nel Caucaso e predicano la jihad”. In epoca sovietica si pregava di nascosto nelle case: “Ho studiato in un monastero illegale, uno dei primi. Morta l’Urss, negli anni 90 aprirono scuole coraniche, e in mezzo al caos politico arrivarono anche salafiti dall’estero, che plagiarono i nostri ragazzi’”. Poi due guerre in Cecenia, migliaia di morti e profughi. E oggi? “Speriamo che lo Stato riconosca l’educazione islamica a scuola, già succede in altre repubbliche russe, perché noi no?”. L’80 per cento dei russi pellegrini alla Mecca sono daghestani. Più in alto c’è il villaggio di Assab, “alcool-free”. La legge di Maometto fa a pugni con quella russa? “Mosca non ci obbliga a bere alcool! Piuttosto, abbiam problemi con la tradizione dei clan… l’islam è internazionalista, abbatte tutte le differenze, etnie comprese”. Forse per questo il potere lo teme: divide et impera. Nell’islam rigoroso, qualcuno cerca un rinnovamento morale. “Da noi la corruzione si respira fin nella culla - ammette l’ex poliziotto Timur. - Paghi per ottenere un lavoro, un buono stipendio, un posto in ospedale o a scuola. Per non far la fila negli uffici, costruire in riva al mare dove è proibito”. Per Svetlana Issaeva, leader delle Madri del Daghestan per i Diritti Umani, la religione è solo una scusa, gli abusi sui “sospetti estremisti” la regola. “Oggi in Russia esiste un Islam di Stato: chi non è con loro, è un nemico del popolo, alla sovietica. A Mosca non importa nulla della fede, vuole solo che il Daghestan resti russo, evitare guerre. Per questo dà carta bianca al potere locale. E quello usa il fondamentalismo per reprimere gli oppositori politici”. Un mix pericoloso. A settembre il nome di Issaeva è comparso in una misteriosa “lista di esecuzione” su volantini, insieme a giornalisti d’opposizione. Anche un foulard troppo coprente può causare problemi. H., 26 anni, vedova di un guerrigliero, lo porta stretto al collo sull’abito lungo. Sta rovistando tra gli stand d’abbigliamento di uno dei tanti “negozi islamici” nel mercato nord di Derbent, quando irrompono uomini dei servizi segreti a chiedere i documenti. La proprietaria protesta: “Questa è propaganda anti-islamica. Ci perseguitano se diciamo inshallah, se ci veliamo troppo e non beviamo. Ficcano il naso nella nostra privacy, stendono liste coi cognomi di famiglie da non ammettere ai posti pubblici. Wahabita? Letteralmente significa Colui che dona. Il vice mufti ha detto in tv che chi ne uccide uno, va in paradiso”. A pochi chilometri c’è l’Azerbaijan: qui finisce la Russia. Nella grande moschea del centro storico, tra vicoli di terra ocra che ricordano Aleppo, sciiti e sunniti pregano insieme. “Russia? Questo è Oriente” riassume la vicesindaca sotto la statua di Lenin nella piazza. A ottobre scorso nelle elezioni locali un terzo dei seggi si è rifiutato di aprire, tra pressioni politiche e scorte militari agli scrutinatori. Nel 2006 zar Putin atterrò sulla fortezza in elicottero: “Siete il nostro baluardo contro il terrorismo internazionale”. Sembrano d’accordo Madina, Elmira ed Elona: nell’antica Filarmonica di Makhachkala, tra tappezzerie che si sfogliano come petali, provano un saggio di break dance, minigonna e ombelico in vista. Una è di etnia lachka, l’altra kumika, l’ultima avara. Sognano di lavorare a Mosca, là le ragazze son più libere: “Gli imam? Bigottoni. Il russo è il nostro esperanto: senza, non potremmo capirci tra noi”.
NUMERI
Daghestan è la repubblica del Caucaso russo più meridionale, più islamizzata, più grande e multietnica: 2,7 milioni di abitanti, oltre 30 etnie e lingue (il 30% avari). Confina con la Cecenia “pacificata” dal Cremlino, Georgia, Azerbajijan e mar Caspio ove si affaccia l’Iran. Fino al 2006 il sistema politico era basato sulla distribuzione del potere tra gruppi etnici. Mosca l’ha abolito e introdotto la carica presidenziale, fomentando nuove tensioni. A febbraio 2010 scade il mandato dell’attuale leader Mukhu Aliev. Fuori da Makhachkala, l’arabo è diffuso sulle insegne. Dal 1999 il wahabismo è fuorilegge: chiusi i media d’ispirazione islamico-intransigente, e le moschee “non conformi”. 180 gli attacchi armati da gennaio 2009 contro uomini delle forze di sicurezza, con 50 vittime e 120 feriti.
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