Il Belucistan e' una delle quattro regioni del Pakistan, per i pashtun afgani è la discarica dove Allah gettò i rifiuti della creazione: centinaia di chilometri di tavolato desertico, vento caldo e fame, incastrati fra Iran, Pakistan e Afghanistan. Una sorta di punizione divina che dall’Asia Centrale scende fino al mare dell’Oman, nascondendo fra le pieghe delle sue gole ogni sorta di traffico. Qua si contrabbanda il diesel iraniano verso il Pakistan, gli arsenali dalle madrase del Pakistan verso l’Afghanistan, e l’oppio di Helmand verso l’Iran. Per ogni confine serrato, se ne apre uno altrove. Per ogni metro di muro alzato fra la provincia del Sistan Balucistan (che si estende in Iran) e i corrieri afgani di stupefacenti, ecco che più a sud i pasdaran stessi si arrendono e lasciano i posti di blocco col Pakistan in balia di ribelli e guerriglieri che entrano ed escono. In mezzo, una stretta maglia di corridoi e scorciatoie percorsi dall’umanità più varia: studenti coranici, ribelli secessionisti, pasdaran sconfinati “per sbaglio”, armatori, mercenari, addestratori di combattenti nazionalisti, mafiosi indiani, businessmen cinesi, agenti segreti pachistani, imbonitori jihadisti. Non mancano nemmeno le spie russe rimaste dai tempi dell’invasione in Afghanistan e oggi passate al servizio di chi prova a calcare le orme dei carri armati del Cremlino: i marines. Ci sono luoghi del mondo che, come sacche di irrealtà, inghiottono chiunque ci si avventuri. Dove si entra e si scompare. Dove quel che accade nessuno lo sa bene con certezza, a cominciare da chi ci vive da sempre. Luoghi come il triangolo nel Balucistan pakistano fra Naushki, Kashmore e Wana. O come il corridoio che, partendo dal lato afgano del Balucistan fra Ziarat, a est di Kandahar, si allunga fino a Kuhak, in Iran, passando per città pakistane come Dalbandine. Ci sono luoghi del mondo - e il Balucistan è decisamente uno di questi - dai quali, se ci si nasce, fuggire è un’avventura. Una terra avara, oscura, ma fin troppo amata. I baluci combattono da più di cento anni per riconquistarla, dopo essersi ritrovati divisi e dispersi tra Afghanistan, Pakistan e Iran. Islamabad ha imposto alla popolazione, un ceppo imparentato con iraniani e curdi, l’amministrazione punjabi. Teheran ha costretto un popolo sunnita a vivere in una Repubblica Islamica sciita. E Kabul è ininterrottamente in guerra da decenni. Facile capire perché, in questi ultimi anni, il conflitto in Balucistan si è cronicizzato, mentre la resistenza si spezza fra tribù, aree di influenza, ideologie e protezioni esterne. Distinguere le diverse posizioni, in questo mosaico caotico, è quasi impossibile. Eppure, i baluci fanno tremare tutti. In Pakistan tengono l’esercito con la spalle al muro, non facendo passare un solo giorno senza esplosioni o agguati. E in Iran, come ha dimostrato l’azione kamikaze che ha quasi decapitato i gli alti ranghi dei Guardiani della Rivoluzione, sono l’unica vera minaccia interna per il governo di Mahmoud Ahmadinejad, un presidente particolarmente odiato dalle tribù di Zahedan. E quando, in seguito all’attentato costato la vita al generale pasdaran Nurali Shushtari (figura chiave dei colletti degli affaristi ultraconservatori iraniani) le accuse sono piovute sul movimento dei baluci Jundallah, la faccenda è parsa fin troppo intricata per comprendere chi paga chi. «Se non fosse per la sua posizione strategica e per il suo potenziale bottino di petrolio, uranio e altre risorse, sarebbe difficile immaginare qualcuno contendersi questo smunto, desolato e proibitivo altopiano». Per capire quello che lo studioso Selig Harrison voleva dire quando scriveva del Balucistan, negli anni Ottanta, occorre uscire dalle gole dell’entroterra e scendere fino al mare. Dai traffici di taniche di diesel si passa alle file di container nuovi di zecca. E tutto diventa più chiaro. Basta raggiungere il porto di Gwadar, nel Balucistan orientale. Il Pakistan lo comprò dal sultanato dell’Oman nel 1958 e oggi Gwadar aspira a diventare la nuova Dubai dello stretto del petrolio. Un affare interamente made in China. Pechino e Singapore hanno investito una fortuna perché davanti a questo colosso di moli e vetrate di banche sfreccino le petroliere partite da Iraq e Arabia Saudita. E non è tutto. A Gwadar, area di libero scambio svincolata da regole sindacali e tasse, dovrebbe approdare un giorno l’ormai leggendario gasdotto transafgano, quello che, all’indomani dell’invasione Nato, era bloccato da un Afghanistan troppo insicuro per portare le riserve kirghize fino al mare. Una pipeline che, vista la situazione a Kabul, rimane un progetto in attesa. Per i cinesi, l’economia più affamata di combustibile sul pianeta, non è poi un gran problema se i marines continuano a fallire nel progetto afgano. Pechino, il gas, ha già trovato dove comprarlo. E, ancora una volta, il Balucistan è la chiave di ogni calcolo. Si chiama Condotto della pace e, nonostante l’India sia stata ufficialmente convinta dagli Usa a uscire dal progetto (per isolare Teheran), probabilmente vedrà la luce molto prima del rivale gasdotto transafgano: una vena d’acciaio che per migliaia di chilometri dovrebbe portare il gas naturale iraniano, estratto a South Pars, fino allo Xingjiang cinese. Per far transitare le tubature (anche queste sponsorizzate in parte dalla Cina, come il porto di Gwadar) iraniane, il Pakistan potrebbe ottenere qualcosa fra i 200 e i 600 milioni di dollari annui in affitto. Senza contare che, dopo lunghe contrattazioni, Teheran ha promesso di vendere il proprio gas a Islamabad per poco più di 4 dollari per milione di unità termiche. Calcolando che il Condotto della pace smisterebbe il “gas degli ayatollah” verso due delle tre maggiori potenze economiche mondiali - India e Cina - è facile immaginare che a Washington qualcuno possa fare il tifo perché il Balucistan rimanga nelle mani dei ribelli, che si tratti di Esercito di liberazione baluci, Jundallah, o chiunque altro sia disposto a portare avanti un conflitto. E se 4 dollari vi sembrano pochi, basta guardare al costo umano che due gasdotti stanno facendo pagare ancora prima di essere giunti a termine. La partita si gioca tutta fra le gole del Balucistan. Dove, nel silenzio generale, gli studenti di Quetta portano avanti continui scioperi della fame per ottenere informazioni sulla sorte di 8.000 attivisti baluci “desaparecidi” per mano delle forze armate pachistane. Dove ci sono agenti indiani venuti a curiosare fra i separatisti per assicurarsi che, grazie alla situazione di conflitto sul confine afgano-pachistano, i traffici dall’Asia Centrale al mare passino dall’India e non da Gwadar. Dove gli 007 russi e americani si incontrano per addestrare ribelli, in modo che i gasdotti iraniani verso la Cina si fermino di fronte alla resistenza baluci e Pechino si rifornisca del gas kazako-russo trasportato attraverso un Afghanistan che non si pacifica mai. Dove qualche spia pachistana, foraggiata dai sauditi, ospita le retrovie dell’unico gruppo armato che finora è riuscito a far tremare il regime di Teheran, Jundallah. Senza che però Islamabad corra il rischio di perdere quei 600 milioni di dollari annui di tasse sul transito di gas naturale dall’Iran alla Cina. Ironia della sorte, le potenze mondiali hanno ancora una volta puntato tutte le loro strategie energetiche intorno a un’area piena di minoranze, i cui diritti culturali, economici ed ecologici vengono negati a uso e consumo di chi vuole sfruttarne le aspirazioni indipendentiste. E il caos si propaga veloce dal Golfo Persico e Afghanistan al Balucistan, dal Balucistan all’India, dall’India allo Xingjiang, dove il regime di Pechino cerca di piegare la resistenza del popolo uiguri. Anche il gas, come il petrolio, ha i suoi effetti collaterali.
lunedì 3 maggio 2010
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