Dopo aver ammesso i "gravi errori di calcolo" compiuti dal governo francese durante il genocidio in Ruanda nel 1994, il presidente Nicolas Sarkozy potrebbe doversi ripetere per ciò che attiene la condotta politica dell'Eliseo durante la rivoluzione dei Khmer Rossi in Cambogia nel 1975. Un'inchiesta, iniziata nel 1999 ma interrotta nel 2007 per un problema di competenza giuridica, sarà infatti riaperta nei prossimi mesi dal tribunale di Créteil per determinare in che modo diverse figure del regime rovesciato dagli uomini di Pol Pot furono catturate nonostante si trovassero sotto la protezione dell'ambasciata francese a Phnom Penh. I fatti. Si svolsero all'indomani della presa della capitale cambogiana da parte dei Khmer Rossi avvenuta il 17 aprile 1975. Dopo aver capitolato di fronte all'invasione rossa, centinaia di persone si nascosero all'interno della sede diplomatica per scampare alle deportazioni forzate. Fra i rifugiati c'erano anche il principe Sirik Matak, due guardie del corpo, la principessa Manivann con la figlia, il genero e sei bambini piccoli, il ministro della Sanità Loeung Nal e il presidente dell'Assemblea Nazionale Ung Boun Hor. Tutti loro, nonostante la protezione sarebbe dovuta essere garantita da Parigi, finirono nelle mani dei khmer rossi e, successivamente, uccisi. Testimoni raccontano che le jeep dei miliziani arrivarono a prenderli fino al cancello della sede diplomatica francese e che due militari in borghese li scortarono per assicurarsi della buona riuscita dell'operazione. Il caso Boun Hor. È basato su una fotografia, che ancora oggi non porta firma, nella quale l'ex presidente del Parlamento viene ritratto insieme a Georges Villevieille e Pierre Gouillon, due militari di stanza in Cambogia, mentre sembra essere bloccato da questi ultimi per essere consegnato con la forza ai colonnelli di Pol Pot. Intervistati prima della chiusura del dibattimento nel 2007 i due ex membri dell'esercito francese avrebbero reso due testimonianze differenti. Secondo Villevieille la foto sarebbe stata scattata il 17 aprile, giorno dell'arrivo delle personalità politiche, e Boun Hor fu circondato perchè al suo ingresso in ambasciata fu colto da una crisi di nervi. Per Guillon, invece, l'immagine si riferisce alla data della partenza e la forza si rese necessaria perchè, ha raccontato l'ex militare, "Ung Boun Hor non voleva andare. Egli doveva aver sospettato ciò che gli sarebbe successo". A confermare la versione di Villevieille ci sarebbe pure l'uomo chiave dell'intera questione. La persona che per la stampa francese sarebbe il depositario della verità sull'accaduto. Jean Dyrac. Era lui il responsabile dell'ambasciata durante quei concitati giorni d'aprile. Le cronache raccontano che il diplomatico non fu assolutamente all'altezza del compito affidatogli: affrontare la crisi e salvare le vite dei rifugiati. I khmer rossi non erano ancora stati riconosciuti dal governo francese e si rifiutarono pertanto di considerare l'ambasciata come un territorio neutro da rispettare. Il messaggio era semplice: se la Francia non avesse consegnato loro i rifugiati, essi avrebbero fatto irruzione e se li sarebbero presi con la forza. L'incartamento giudiziario sul caso, al vaglio degli inquirenti dal 1999, raccoglie una ventina di telegrammi dai quali si apprende di una vera e propria crisi che, in quelle ore, coinvolse le istituzioni francesi. Il presidente della Repubblica era Valery Giscard D'Estaing, capo del governo Jacques Chirac. A entrambi Dyrac spiegò, dopo diverse corrispondenze, la tragicità della situazione dettata dall'ultimatum lanciato dai khmer rouge di consegnare la lista completa dei nomi dei rifugiati all'interno dell'ambasciata: "Senza un ordine immediato ed espresso del dipartimento disporrò di dare asilo politico. Dovrò entro un periodo che non deve essere superiore a ventiquattro ore, fornire i nomi di queste personalità. Rispondete al telegramma in modo chiaro: Sì, se devo consegnare. No, se devo astenermi". Alle 18 e 10 del 18 aprile partì da Parigi la risposta che Dyrac non avrebbe voluto ricevere: "Si prega di preparare una lista di nomi di cittadini cambogiani che sono nei locali dell'ambasciata, per essere pronti a comunicare elenco al termine imposto". Una freddezza burocratica che, altrettanto freddamente, avrebbe condannato uomini, donne e decine di bambini a morte certa. In calce al documento, oltre il cognome del segretario generale del ministero degli Esteri Geoffroy Chodron de Courcel, anche due sigle PR e PM. O, più chiaramente, Presidente della Repubblica e Primo Ministro.
lunedì 22 marzo 2010
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento