domenica 21 marzo 2010

ULTIMISSIME SALUTE

IL CIOCCOLATO AIUTA A PREVIENE L'ICTUS
Mangiare cioccolato aiuta a prevenire l'insorgenza di ictus. A rilevarlo e' stato uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell'Universita' di Toronto (Canada) e presentato in occasione del meeting annuale dell'American Academy of Neurology che si e' tenuto a Toronto. Lo studio ha coinvolto 50mila persone circa. Dai risultati e' emerso che coloro che mangiano cioccolato, 44.489 persone, hanno il 22 per cento di probabilita' in meno di soffrire di un ictus. Non solo. Un secondo studio ha rilevato che 1.169 persone che hanno mangiato 50 grammi di cioccolato una volta a settimana avevano il 46 per cento in meno di probabilita' di morire a seguito di un ictus rispetto alle persone che non mangiavano cioccolato. Questo perche', secondo i ricercatori, il cioccolato e' un alimento ricco di 'flavinoidi', un potente antiossidante. Ora lo scopo degli scienziati e' quello di scoprire se i supplementi possono servire nella prevenzione degli ictus. "E necessaria piu' ricerca", ha sottolineato Sarah Sahib che ha coordinato lo studio, "per determinare se il cioccolato abbassi veramente rischio di ictus, o se le persone sane siano semplicemente piu' propense a mangiare cioccolato rispetto alle altre".
ATTENZIONE AI VECCHI ANTISTAMINICI
Gli antistaminici H1 di vecchia generazione usati come farmaci antiallergici potrebbero essere pericolosi per la salute. Almeno questo e' quanto emerso da un nuovo rapporto pubblicato sulla rivista 'Allergy' e riportato dal notiziario europeo 'Cordis'. Stilato da esperti della Rete europea globale per le allergie e l'asma (GA2LEN) e dell'Accademia europea di allergologia e immunologia clinica (EAACI), il rapporto si chiede se sia giusto che gli antistaminici H1 siano ancora disponibili come medicinali da banco. Il rapporto afferma che gli antistaminici H1 di prima generazione -la terapia piu' diffusa per patologie quali la rinite allergica- attualmente da banco siano legati a numerosi problemi di salute e sociali. Secondo il rapporto, se confrontati con i nuovi antistaminici H1, i farmaci piu' vecchi risultano essere peggiori. Sono legati a una miriade di problemi: disturbi del sonno; minor rendimento sul lavoro e ridotta abilita' d'apprendimento; incidenti aerei, d'auto e navali causati da sonnolenza e persino la morte come risultato di overdose accidentale in bambini e neonati, nonche' suicidi. Visto che il 30 per cento della popolazione Ue e Usa fa uso o potrebbe farne di antistaminici H1, la relazione si chiede in definitiva se sia nell'interesse della salute pubblica che rimangano disponibili come farmaci di automedicazione. Gli antistaminici sono in uso da oltre 50 anni per curare allergie tra cui riniti (infiammazione delle membrane nasali comunemente conosciuta come febbre da fieno), orticaria e dermatite topica (eczema). Vengono in genere distinti in prima e seconda generazione: i primi hanno un effetto piu' sedativo che porta sonnolenza, effetto collaterale significamente ridotto nei secondi. Un'allergia e' una forte risposta immunitaria a un antigene (allergene). Gli stessi allergeni sono spesso sostanze innocue e comprendono acari della polvere, polline o forfora animale (piccole scaglie che si distaccano dalla cute o dai peli umani o animali). Le reazioni allergiche si verificano quando si ha una reazione esagerata a un allergene che causa risposte che vanno occhi che lacrimano o naso che cola a sintomi seri come lo shock anafilattico. Per il rapporto la nuova generazione di antistaminici si e' dimostrata piu' affidabile ed efficace nella cura delle allergie e i pazienti hanno avuto meno effetti collaterali. GA2LEN e' una rete di eccellenza finanziata dall'Ue che ha ricevuto 14,4 milioni nell'ambito dell'area tematica 'Qualita' e sicurezza alimentare' del Sesto programma quadro. La rete riunisce partner da 26 istituti di ricerca con sede nell'Ue tra cui Eacci e Federazione europea delle associazioni di pazienti affetti da allergie (Efa). Si occupa di ricerca multidisciplinare per migliorare le conoscenze scientifiche dei meccanismi delle allergie e armonizzare la ricerca europea. -
LE SIGARETTE ELETTRONICHE CHE NON RILASCIANO LA NICOTTINA
Le sigarette elettroniche non rilasciano affatto nicotina come 'promesso' dalle case produttrici. E' il risultato di uno studio pubblicato dalla rivista 'Tobacco control', secondo cui la quantita' di questa sostanza effettivamente rilasciata dai dispositivi e' pari a quella che si avrebbe 'aspirando una sigaretta spenta'. I ricercatori della Virginia Commonwealth University hanno sottoposto 16 persone a quattro differenti sessioni: in una dovevano fumare la loro marca di sigarette preferita, in altre due invece due tipi diversi di sigarette elettroniche e nell'ultima aspirare da una sigaretta spenta. Misurando il tasso di nicotina nel sangue dei fumatori dopo ogni sessione e' emerso che non c'era nessuna variazione di rilievo dopo aver fumato i dispositivi elettronici, nonostante invece questi vengano pubblicizzati come un metodo per il rilascio di questa sostanza al pari di gomme da masticare o cerotti. "I consumatori hanno il diritto di aspettarsi che un prodotto che si sostiene rilasci un farmaco funzioni come promesso - ha spiegato Thomas Eissenberg, che ha coordinato lo studio - il nostro studio invece dimostra che non solo le sigarette elettroniche non rilasciano la quantita' di nicotina promessa, ma non ne rilasciano affatto".
UNA CAUSA GENETICA ALLA BASE DELLE BALBUZIE
Una ricerca recente rivela che alla base della balbuzie potrebbe esserci un difetto genetico. Lo studio, che compare recentemente sulla rivista New England Journal of Medicine è stato realizzato da un’equipe di ricercatori del National Institute on Deafness and Other Communication Disorders statunitense, che ha esaminato un vasto gruppo di pazienti provenienti da diversi paesi, tra i quali Pakistan, Stati Uniti ed Inghilterra. Tra questi i ricercatori hanno scoperto che uno su dieci presentava appunto una mutazione genetica in tre diversi geni. Due di questi, denominati GNPTAB e GNPTG sono già comparsi nella ricerca medica perchè ritenuti collegabili a due gravi malattie metaboliche. Queste, note come Malattie da Accumulo Liposomiale, si manifestano con l’incapacità di un enzima di metabolizzare i grassi che quindi si accumulano nell’organismo causando problemi in diverse parti del corpo.Le persone che hanno questo difetto genetico in duplice coppia sviluppano il disturbo metabolico, mentre, quando esso è presente in una sola coppia, potrebbe invece essere un fattore scatenante della balbuzie. Nell’esame dei pazienti con balbuzie i ricercatori hanno inoltre individuato un terzo gene difettoso, che invece non era presente nei pazienti sani di un gruppo di controllo. Per centinaia di anni, sostengono i ricercatori, la causa della balbuzie è rimasta un mistero, sia per i pazienti che per medici e scienziati. Questo studio è il primo a gettare una luce sulle possibili cause genetiche, e, nella speranza dei ricercatori, i risultati potrebbero essere di aiuto nella sperimentazione di nuove terapie. Per curare il disordine metabolico causato dai geni difettosi per esempio, si inietta l’enzima nel sangue, e questo va a sostituirsi a quello difettoso prodotto dall’organismo, sopperendo così alla sua inefficacia. Lo stesso meccanismo, suggeriscono gli autori dello studio, potrebbe essere sperimentato per valutare se è efficace anche contro la balbuzie.
IL SOLVENTE ASSOCIATO AL PARKINSON
L’esposizione al tricloroetilene, un solvente industriale, aumenta il rischio di sviluppare il morbo di Parkinson di almeno sei volte.
E’ quanto stabilito da una recente ricerca condotta negli Stati Uniti, da ricercatori del Parkinson’s Institute di Sunnyvale, il primo studio in grado di quantificare l’incidenza del rischio, ed ultimo di una serie di lavori che sugli animali avevano già verificato tale fenomeno. Se la genetica, è provato, gioca un ruolo determinante nello sviluppo del morbo di Parkinson, secondo i medici ci sono anche fattori ambientali che hanno una loro importanza. Il tricloroetilene, identificato anche dall’acronimo TCE, è un solvente un tempo ampiamente utilizzato come detergente, ed in alcuni casi anche come anestetico, in special modo durante il parto. Il diffondersi della preoccupazione sulla sua presunta tossicità hanno fatto si che esso non venisse più utilizzato e fosse sostituito da altri solventi ed anestetici. Dopo alcune segnalazioni sull’incidenza del Parkinson in lavoratori a contatto con la sostanza sono stati eseguiti studi sugli animali, grazie ai quali si è scoperto che questa uccide le cellule cerebrali che producono la dopamina in un’area del cervello, la materia grigia, che è proprio quella che viene colpita dal morbo di Parkinson. Non solo, ma il TCE danneggia nella stessa area anche i mitocondri, gli organismi cellulari il cui compito è quello di fornire energia ed alimentazione alle cellule, nel cervello e nelle altre parti del corpo. I ricercatori hanno valutato l’associazione tra tricloroetilene e Parkinson su 99 gemelli, veterani della seconda guerra mondiale, uno studio comparativo che voleva individuare come mai uno dei due gemelli aveva contratto il Parkinson e l’altro no. Raccogliendo le esperienze di vita e di lavoro degli esaminati e sottoponendo la totalità dei partecipanti ad uno studio a doppio cieco da parte di un esperto di igiene industriale ed uno di medicina preventiva, i ricercatori hanno verificato che, se per alcune sostanze, come xilene e toluene non si registrava un rischio maggiore di Parkinson, quelli esposti al tricloroetilene risultavano invece avere una probabilità di 5,5 volte maggiore di contrarre la malattia. Quelli esposti al tetracloroetilene, conosciuto con l’acronimo di PERC, risultavano addirittura aver un rischio di 8 volte maggiore. Anche se la significatività statistica risultava inferiore anche il tetracloruro di carbonio incideva per 2,8 volte in più. Coloro che risultavano esposti al TCE avevano storie lavorative in determinati ambianti e con determinate mansioni, tintorie, macchinisti, elettricisti e meccanici. La ricerca si è basata su un campione relativamente piccolo, non sufficiente per valutare compiutamente l’incidenza di questo fenomeno su una popolazione più ampia. Per questo motivo i ricercatori stanno approntando un database di più grandi dimensioni che permetta loro di affinare i risultati dello studio e precisare meglio quanto e come questa sostanza chimica influisca sullo sviluppo del morbo di Parkinson.

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