domenica 4 aprile 2010

AFFARI DI REGIME

Della Cina si sa: firma accordi economici con i generali, li protegge regolarmente appellandosi al principio di non interferenza, è responsabile del 90 percento degli investimenti stranieri nel Paese. Ma mentre gli Usa contemplano la fine delle sanzioni, se il regime dovesse liberare Aung San Suu Kyi e gli oltre duemila prigionieri politici, mezza Asia continua a fare affari con la giunta militare birmana. E gli ultimi accordi sulla costruzione di un gasdotto sono solo l'ultimo esempio. Pochi giorni fa, la coreana Hyundai Heavy Industries ha sottoscritto un accordo da 1,4 miliardi di dollari con la connazionale Daewoo, per lo sviluppo di un enorme giacimento di gas naturale al largo della costa birmana, al quale partecipano anche due compagnie indiane. Tra due-tre anni, quando sarà completato il gasdotto che taglierà il Paese da sud-ovest a nord-est, 15 milioni di metri cubi di gas fluiranno ogni giorno per 25-30 anni, consentendo al regime birmano di intascare circa un miliardo di dollari all'anno. Quel gas arriverà in Cina, e sarà lo stesso per il petrolio che verrà trasportato da un'altra opera in costruzione: un oleodotto che farà lo stesso tragitto, dallo stato birmano di Arakan alla provincia cinese dello Yunnan, consentendo a Pechino di risparmiare tutti i chilometri necessari a circumnavigare l'Asia sud-orientale nell'importare il greggio dal Medio Oriente. Anche la Thailandia, che già ora è il principale acquirente del gas birmano, è attiva nel diversificare i suoi bisogni energetici. Il piano per una diga con annessa centrale idroelettrica, entrambe da costruire in Birmania, è in stallo; ma Bangkok ha appena ribadito di voler iniziare la costruzione di entrambe, che vorrebbe completare entro il 2016. Il Bangladesh, inoltre, ha appena dato il suo assenso alla realizzazione di un gasdotto che connetta la Birmania con l'India. E nuove opportunità commerciali si presenteranno nei prossimi mesi: secondo Irrawaddy, il sito di informazione di riferimento della diaspora birmana, il regime ha appena avviato una massiccia campagna di privatizzazione di interi settori economici che finora controllava: la rete di distribuzione del carburante, attività portuali, fabbriche, miniere. Il sospetto di molti analisti è che i generali intendano mettere al sicuro un cospicuo bottino, prima delle elezioni previste entro la fine di quest'anno. Nessuno si attende un voto libero, e le norme fissate dalla nuova Costituzione assicureranno la presa dei militari sul Paese anche in seguito; ma non si escludono cambi della guardia interni al regime. Con gli affari sul gas, inoltre, i generali - secondo il rapporto di una Ong - hanno già lucrato in passato, giocando con il cambio fasullo della valuta nazionale. Ufficialmente, un dollaro vale circa 6 kyat, ma al mercato nero è prassi vedersi cambiati i biglietti verdi in corrispettivi di 1.000 kyat; una differenza che la giunta ha usato in passato per mettere minori introiti a bilancio, utilizzando il resto per gonfiare i suoi conti bancari a Singapore. E tutto questo mentre qualsiasi opera pubblica in costruzione - come denunciato da infinite testimonianze - comporta sgomberi senza risarcimento, lavori forzati, violenze contro la popolazione. Con niente che faccia pensare a un cambio di atteggiamento per i progetti in corso.

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