Amrul è un piccolo villaggio sulle montagne innevate di Laghman, un centinaio di chilometri nordest di Kabul, abitato da poche centinaia di pastori e contadini. Come ormai quasi tutti i villaggi dell'Afghanistan, Amrul è sotto il controllo dei talebani. "Perché gli danno una medaglia per la pace?". Lunedì scorso, attorno alle due di notte, decine di soldati delle forze speciali statunitensi accerchiano le case di argilla dell'abitato dove, secondo le informazioni raccolte, si nasconde un 'bombarolo' talebano ritenuto il responsabile di numerosi agguati dinamitardi contro i convogli delle truppe Usa. I talebani, appostati sui tetti delle abitazioni, aprono il fuoco e in un istante si scatena l'inferno. I soldati americani sparano contro tutto quello che si muove, sparando fanno irruzione in alcune abitazioni, uccidendo sette guerriglieri ma anche sei civili, tra cui una donna. Il mattino successivo, partiti i militari Usa, gli uomini di Amrul raccolgono i loro morti e li portano a Mehtarlam, il capoluogo della provincia, per protestare davanti al palazzo del governatore. Dal corteo funebre di protesta si alzano urla contro l'America, contro Obama: "Perché danno a Obama una medaglia per la pace? Dice di volerci portare sicurezza, ma ci porta solo morte! Morte a lui!", urla un parente delle vittime alle telecamere di Al Jazeera. "Morte a Obama! Morte all'America!", gli fa eco la folla attorno a lui alzando i pugni al cielo. La rabbiosa processione degli abitanti di Amrul avanza tra i campi Mehtarlam, ma alle porte della città trova la strada sbarrata dai soldati dell'esercito afgano, il loro esercito. I militari aprono il fuoco contro il corteto, uccidendo tre persone. "Ci ha bombardato, ci ha tolto tutto! Non si merita quel premio". La notizia che "il nuovo presidente dell'America" ha ricevuto un importante "premio per la pace" lascia sgomenti la maggior parte degli afgani. Soprattutto quei tanti che hanno vissuto sulla loro pelle il 'nuovo corso' di Obama. Come i parenti delle vittime della strage di Bala Baluk: il villaggio in provincia di Farah che lo scorso maggio è stato raso al suolo dai cacciabombardieri americani. I morti civili, inizialmente negati dai generali Usa, furono 147. I sopravvissuti di quel massacro vivono ancora tra le macerie delle loro case. Una giovane donna se ne sta seduta sulla soglia di un’abitazione semidistrutta, con suo figlio sulle ginocchia. Indossa un velo nero e un abito nero luccicante di perline, ancora in lutto per la morte di un familiare. "Obama non si merita questo premio! Ci ha bombardati e ci ha lasciati senza niente, nemmeno una casa". La rabbia del cobra. Nawzad è una piccola cittadina che sorge ai piedi delle montagne rocciose dell'Helmand settentrionale, saldamente controllata dai talebani. Da tre anni, prima i gurka nepalesi dell'esercito di Sua Maestà britannica, poi i marines americani, hanno provato a riconquistarla a più riprese, senza mai riuscirci: la città, semidistrutta dai bombardamenti alleati, è ancora saldamente in mano ai talebani. Ora i generali statunitensi hanno deciso di chiudere questo conto in sospeso. Venerdì scorso è scattata la più grande offensiva militare mai sferrata dagli alleati in questa zona: l'operazione 'Rabbia del Cobra'. Mille marines sono piombati sulla Valle di Nawzad con centinaia di carri armati ed elicotteri, ingaggiando l'ennesima battaglia con i talebani. Secondo le prime notizie diffuse dalla Mezzaluna Rossa afgana, ci sono già nove morti accertati tra la popolazione civile, fuggita in massa dalla zona dei combattimenti: circa quindicimila persone hanno abbandonato Nawzad e i villaggi vicini cercando rifugio più a sud, a Grishk e nel capoluogo provinciale, Lashkargah. Un numero di sfollati sufficiente a creare un allarme umanitario, visto che tutte le agenzie internazionali dell'Onu hanno abbandonato da tempo la provincia di Helmand. Un problema che per le forze alleate, semplicemente, non esiste: "In quell'area non c'erano più civili, quindi non c'è nessuno sfollato", ha tagliato corto William Pelletier, un portavoce militare Usa. McCrystal, generale d'acciaio. Nei giorni scorsi, migliaia di cittadini statunitensi erano scesi in strada a San Francisco, Seattle, Chicago, Boston, Detroit e Minneapolis per protestare contro la decisione del presidente Obama di inviare altri 30mila soldati a combattere in Afghanistan. Piccole manifestazioni pacifiste, dietro le quali però c'è ormai una maggioranza, silenziosa, di americani che non sostengono più questa guerra. Una maggioranza che, all'annuncio dell'escalation, si era consolata con la promessa presidenziale di un ritiro delle truppe Usa da avviare nel giro di un anno e mezzo, a partire dal luglio 2011. Ma anche questa prospettiva consolatoria pare già tramontata: il generale David McCrystal, comandante delle truppe alleate in Afghanistan, ha subito corretto il tiro della propaganda della Casa Bianca: "Luglio 2011 per me non rappresenta un limite fissato, ma la data alla quale valuteremo come procedere. Come potremo ritirarci se la missione non sarà compiuta!", ha dichiarato il generale, chiarendo che, anzi: "Se la violenza dovesse aumentare, rendendo necessarie rinforzi addizionali, li richiederò. Non permetterò che considerazioni politiche influenzino la valutazione sul progresso della missione". Per la serie: siamo in guerra, e in guerra decidono i militari, non i politici. Guerra e democrazia, si sa, non vanno molto d'accordo. Né in Afghanistan, né in America.
domenica 13 dicembre 2009
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